«Il bambino disse: “Mi diverte fare qualcosa di cui non si sa mai cosa possa rappresentare” (quando gli fu rimproverato che in un suo disegno non si riusciva a riconoscere nulla).»
Peter Handke, Il peso del mondo
«Il 2 agosto 1962 viene oggi ricordato come un giorno luminoso nella storia della repubblica delle lettere», dichiara il narratore di Ludmilla e il corvo nelle prime righe del romanzo di Gennaro Serio (L’orma editore). «Quel giorno», continua il narratore, «si ritiene sia stato rinvenuto il manoscritto – considerato da alcuni fino ad allora non esistente, perduto da altri – del quarto romanzo di Franz Kafka: Der Rabe».
Di questo romanzo si parla nel celeberrimo passo delle memorie di Dora Diamant, allora fidanzata di Kafka: nel 1923, un anno prima della morte del grande scrittore praghese, Dora e Franz, passeggiando in un parco di Berlino, s’imbattono in una bambina di nome Ludmilla, in lacrime perché ha perso la propria bambola. Per consolarla Kafka le dice non solo di sapere dove si trova, ma di avere a casa una lettera che la bambola stessa le ha indirizzato; Der Rabe sarebbe dunque un romanzo epistolare.
È intorno all’episodio del parco che Gennaro Serio costruisce il suo secondo romanzo, dando vita, come nel precedente Notturno di Gibilterra (uscito nel 2020 sempre per L’orma) a un congegno narrativo ironico e raffinato. Anche qui c’è un inseguimento, un intrico da risolvere: un critico islandese, detto anche agrimensore, scopre che il manoscritto di Kafka è custodito da un certo Quim Filho, viticoltore di Coimbra, e protetto da un giocherellone dottor Sages che appare e scompare tra le vigne del viticoltore; a sua volta, e a sua insaputa, l’agrimensore è inseguito e depistato, come del resto lo è lo stesso lettore, nella ricerca affannosa, e a tratti pericolosa, del manoscritto.
Di fatto l’esistenza di Der Rabe pone un’annosa questione: rispettare o no la volontà di Kafka di bruciare «quanto giace inedito nel suo studio» e «non ripubblicare quanto già edito»; «Sulle volontà testamentarie di Franz Kafka di distruggere i propri scritti», scrive Serio, «si sono fatti discorsi corrivi in ogni direzione, spesso del genere di quelli che nella perfetta definizione di Milan Kundera afferiscono alla kafkologia (in senso canzonatorio, come se noi tutti fossimo elementi di una setta religiosa che ignora, con ambiguo genio comico, Kafka in quanto scrittore, privilegiandone la figura “profetica”)». Sia con o contro Max Brod, sembrerebbe dunque che questa masnada di studiosi sia incapace di cogliere il lato ironico per non dire comico dell’opera di Kafka e di tutta la faccenda; qualità invece che ritroviamo in abbondanza nel romanzo di Serio che predilige – contrappasso del proprio cognome? – la parodia, il tono canzonatorio, lo scherzo in senso kunderiano: «E di cosa vuole accusarci, signor Brod? È lei a prendersi sul serio, signore. […] E di cosa mi accusate, di grazia. Broddino, disse uno di noi, soltanto di non capire mai gli scherzi», racconta sarcasticamente il narratore che, sebbene abbia scelto di sposare la linea oltranzista del «Distruggere tutto. Bruciare, laddove è possibile», non riesce più a distinguere il bene dal male, contagiato dallo scherzo che si è prestato a narrare.
Nella prima parte di Ludmilla e il corvo, denominata Coimbra (come il diario dell’agrimensore da cui il narratore attinge a piene mani) si inseguono le peripezie del critico islandese per recuperare il manoscritto; nella seconda, O cuorvo, che è quasi la traduzione in napoletano – lingua di Serio – della versione portoghese di Der Rabe custodita nella vigna di Filho, il mistero si scioglie e infittisce insieme.
Se il ritrovamento del manoscritto si traduce in una questione di vita o di morte per tutti i personaggi del romanzo, ciò che interessa all’autore di Ludmilla e il corvo, più che il fatto stesso raccontato da Dora Diamant, è l’effetto che (sempre secondo Dora) hanno prodotto le lettere sulla bambina: «La menzogna doveva dunque essere trasformata in verità attraverso la verità della finzione». In un momento storico in cui si sente il bisogno di distinguere ciò che è fiction dalla non fiction, in cui la parola chiave sembrerebbe essere autofiction, Serio rivendica la forza tout court della finzione, ovvero della letteratura: e così come «Kafka aveva portato Ludmilla a dimenticarsi della bambola, e a perdersi nella storia che quella le raccontava per interposta persona», Serio invita il lettore a fare lo stesso, mentre intorno all’episodio del parco va moltiplicando le sue storie, da bravo fingitore – come direbbe Pessoa, peraltro più volte evocato nel romanzo. Cosa è vero e cosa è falso? Cosa è Kafka, o meglio Questo è Kafka? – per citare il libro del tedesco Reiner Stach, da cui Serio si lascia ispirare.
La letteratura possiede la capacità di mettere in discussione la realtà, e ribaltarla: siamo sicuri che sia stato Kafka a consolare Ludmilla e non viceversa? E ancora: chi è Ludmilla? La bambina o la bambola?
«Non mi sentivo a casa a Berlino e non mi sentivo a casa né a Porto né tantomeno a Coimbra. Forse sono una di quelle bamboline viaggiatrici che ha bisogno di stare sui treni, che guarda dai finestrini e pensa a luoghi perduti e scene dimenticate. Forse è questa la ragione per cui ti scrivo da lontano, la ragione per cui non sono accanto a te. So bene che non torneranno i nostri lunghi pomeriggi del parco, quando correvamo libere e ridevamo e facevamo gli scherzi. Quel parco, mia amata compagna, se lo vedessi oggi… Quando invece i prati lo facevano bello e noi lo avevamo eletto a nostro dominio, a nostro giardino… Ricordo ancora tutti gli incontri, le volte in cui un acquazzone interrompeva un nostro gioco e correvamo a ripararci, tutte sporche di fango. Ti ricordi di quel gentile signore con il cappello che veniva a sedersi sulla panchina davanti al tiglio, sempre un po’ in affanno, magro e pallido. Ci facevamo tante risate a guardarlo da lontano, con quella sua aria allegra e triste nella stessa espressione. Era un po’ come noi, compagna, allegre e tristi con la stessa espressione. Quella volta che piangeva come un bambino… Ci avvicinammo senza pensarci. Signore, chiedemmo, signore, perché piange tanto? E lui ci guardò con quel suo sorriso così bello, compagna, un sorriso gentile, e disse, ho perso le chiavi, non riesco a trovarle da nessuna parte. Le chiavi di casa, chiedemmo, e lui subito, parlando piano, sì, certo, le chiavi di casa. Non posso più tornare. Ci proponemmo allora, compagna, di raccontargli una storia per intrattenerlo. Vuoi che ti raccontiamo una storia, dicemmo. Certo, disse lui, certo, sarò lieto di ascoltarla. E allora cominciammo a raccontargli tutte le nostre storie, compagna, tutte le nostre avventure, e le disavventure. E alla fine lui era contento, ci disse, e disse che era stato contento di ascoltare, e che si sarebbe ricordato di quel pomeriggio, e poi disse, ecco la mia fidanzata, forse ha trovato quello che avevamo perduto, disse, e poi si alzò. Allontanandosi, un po’ incerto nei passi, sembrò altissimo e magrissimo e pensammo che non lo avremmo rivisto tanto presto, e allora forse ci venne un po’ da piangere, compagna, come facciamo sempre noi, allegre e tristi con i nostri scherzi e i nostri pianti, e la fidanzata del signore si girò sentendo che piangevamo, e ci salutò con la mano e noi salutammo e poi andammo via anche noi dalla panchina davanti al tiglio, nella direzione opposta.»
È una pagina bellissima questa di Serio, in cui spicca anche il suo prosare elegante, e in cui la scelta di non distinguere i dialoghi con a capo e segnali di interpunzione è una dichiarazione di intenti: «c’è stato un tempo in cui tutto sembrava chiaro, colleghi, anche nella notte dalla quale vengono le nostre voci. Oggi non si direbbe bastare nemmeno la più fulgida delle aurore». In tutto il libro si respira «questa combinazione di gravità e leggerezza, di comicità e tristezza, di senso e non senso», per usare le parole con cui Kundera descrive il Processo di Kafka. Ma alla fine di che cosa parla Ludmilla e il corvo? Qual è il tema? È lo stesso autore a rivelarcelo in un passo esilarante, dove riporta uno dei tanti e bizzarri sogni raccontati nel suo diario dall’agrimensore, là dove quest’ultimo conversa con il poeta Rilke scoprendo l’esistenza di un suo romanzo:
«Come si intitola il suo romanzo, domandò allora l’agrimensore. Omicidio rituale in Ungheria, rispose il poeta Rilke, un titolo orrendo, aggiunse. Un’opera giovanile, perdonò l’agrimensore. Cosa racconta, chiese, qual è il tema del romanzo? – parlo come un analfabeta, mi scusi, è l’agitazione (il tema, pensò l’agrimensore nel sogno, sono un poveretto). Il romanzo parlava delle grandi verità, disse il poeta, quelle grandi verità che il tempo ha corrotto in barzellette; i romanzi parlano sempre degli effetti del tempo che trascorre. Un argomento fondamentale, approvò l’agrimensore, le grandi verità che si corrompono in barzellette. È un libro da salvare, non può cadere nell’oblio. Bruciato, sorrise il poeta Rilke. Pagina per pagina. Perché, implorò il critico, perché un simile gesto?»
Di fronte al gesto “eretico” di Rilke, l’agrimensore, dietro il quale si cela anche l’autore di Ludmilla e il corvo, ci rivela il suo rapporto con la letteratura:
«No, disse l’agrimensore, no signor Rilke! Traggo, come tutti, grande piacere dalla lettura delle opere maestre dei grandi scrittori, ma se c’è una cosa che mi procura un piacere persino maggiore, anche se più sottile, più volatile, più elusivo, è leggere le opere brutte dei grandi scrittori. È un mio piacere segreto; imbattermi in una pagina mediocre di un grande scrittore mi commuove fino alle lacrime, disse allegro l’agrimensore. Ci sono scrittori che possono vantare molte pagine mediocri e tuttavia pochissime pagine per le quali meritano a pieno titolo la qualifica di grande scrittore. Sono tra quelli che amo di più. Con i classici è più difficile, purtroppo, per alcune ragioni: perché più si va indietro nel tempo e più è difficile trovare grandi scrittori con bibliografie cospicue; in secondo luogo perché al cospetto di certi autori la tempra del lettore più indomito si scioglie in un budino servile e disposto ad accogliere un ventaglio di possibilità d’ampiezza inconsueta; terzo, sembra che le pagine di certi vecchi autori scorressero davanti ai loro occhi con una lentezza e una ponderazione diversa. Sarà un effetto della polvere del tempo? Prenda a titolo di esempio uno qualunque dei grandi scrittori vissuti dopo di lei, lei non li conosce, lei è morto e questo è un sogno; tuttavia, lei saprà che c’è un fenomeno peculiare del grande scrittore contemporaneo: egli si ripete. Alcuni si ripetono deliberatamente, altri meno; altri ancora, sono i casi più patologici, riscrivono lo stesso libro fino a che hanno forza in corpo.»
Figura chiave del romanzo è il personaggio dell’agrimensore – e come non poteva esserlo un personaggio che porta il nome dell’emblematico protagonista del Castello di Kafka. L’agrimensore di Serio, che è un soprannome datogli dalla zia Klara da bambino, è prima ancora che critico un appassionato lettore, un bibliofilo che alla vista di certi libri sviene per l’emozione: figuriamoci per un manoscritto inedito di Kafka. A più riprese Serio ci racconta con flashback l’infanzia dell’agrimensore, quando nella sua capanna al buio tirava fuori da una rudimentale scaffalatura-cassapanca – una sorta di stipo dei segreti, mobile da wunderkammer – i suoi quattro libri preziosi, la sua costellazione letteraria: Halley, Kafka, Kafka, Kipling, da leggersi forse come un messaggio criptato, una combinazione per aprire una cassaforte.
«Sedette nuovamente sul cuscino, e aprì Il castello. Proseguì senza interruzioni fino all’ultima pagina. Ma la fine non c’era. Il libro non finiva. Il libro non finiva. Il libro non finiva.
Nessuno può finire di leggere Il castello, annota l’agrimensore in Coimbra. In stato di agitazione, il bambino ripose il libro nel «segreto» e richiuse lo sportello.»
È pieno di malinconia questo agrimensore, un personaggio candido che ricorda quello del Daddo nell’Iguana di Anna Maria Ortese; lo vediamo spaesato, ma anche piacevolmente sorpreso, aggirarsi nella vigna di Filho, che sempre di più assomiglia a quella vigna del testo di Ivan Illich:
«All’agrimensore prese come una strana malinconia, e nei pochi secondi che il signor Filho gli lasciò a disposizione, la sua solitudine gli parve qualcosa di fatidico e sfuggente al tempo stesso, gli venne l’idea di illuminare le vigne con un faro, come se dovesse scorgere tra i filari qualcuno o qualcosa che attendeva di rivelarsi, che attendeva lui, non altri, per dirgli di più, per dirgli di Coimbra. L’agrimensore allora aguzzò la vista, strinse gli occhi ma con affettazione, come se recitasse una piccola parte – il buio era impenetrabile – e sorrise di sé. Cosa poteva capitargli di più bello che essere lì quella notte, pensò – era stato preso dalla frenesia, è vero, ma se n’era pentito. Ora si sentiva bene, e decise che non c’era ragione di affrettarsi, non c’era motivo di aggredire il signor Filho con le sue domande. Il viticoltore era un uomo mite e disponibile, non era geloso del suo tesoro, al quale forse non attribuiva nemmeno il giusto valore, e, se non fosse stato per lo svenimento, l’agrimensore avrebbe già potuto posarvi sopra le sue manone islandesi.»
E il corvo? si chiederà a questo punto il lettore. Il corvo è la traduzione di De Rabe, un gioco di parole che si cela nel nome di Kafka (Kavka), un numero da circo, il never more del “torvo corvo” di Poe, un simbolo da decifrare nella foresta in cui si inoltra Ludmilla, nella vigna in cui si perde l’agrimensore. O semplicemente uno scherzo.
In copertina: Franz Kafka