Un Meridiano ben riuscito può evocare fantasmi. A novembre Mondadori ha dato alle stampe il volume dedicato a Dino Campana, per la cura di Gianni Turchetta, e lo sguardo del poeta sulla custodia del libro, due occhi vigili e lucidi che ci fissano scavalcando un secolo, sembra rimandare non soltanto all’uomo che Campana è stato ma anche allo spettro che forse tuttora egli è.
Uno sguardo lucido, sì, giacché si parla sempre troppo spesso della follia di Campana e forse troppo poco del rigore visionario della sua poesia. Per fortuna il lavorio critico del curatore del Meridiano non scade mai nei tratti di “maledettismo di maniera” legati all’opera del poeta, denunciandoli fin dalle prime pagine del saggio introduttivo e rimarcandone ormai l’indebolimento. Di fatto Gianni Turchetta sottolinea di continuo, sia nell’introduzione e nella cronologia che nelle ricche note ai testi campaniani, la preparazione poetica e filosofica di Dino Campana, che è stato un grande autore europeo e non un folle che ha accidentalmente scritto grandi pagine. Non bisogna mai dimenticare che la pazzia di Campana è stata la causa del suo silenzio e non la matrice della sua poesia, sebbene i passi più sconvolgenti dei Canti Orfici a una prima lettura possano far credere il contrario. Dino Campana è un poeta che sa molto bene ciò che fa.
Il Meridiano offre parecchi spunti sorprendenti e talora inediti. I versi francesi nella sezione “La Verna” dei Canti Orfici, «Comme deux ennemis rompus / Que leur haine ne soutient plus / Et qui laissent tomber leur armes!», sono per esempio rimasti a lungo senza autore; dalla clausura in manicomio Campana spiegherà a Carlo Pariani che sono i versi «di un poeta francese che ne scrisse pochissimi, un parigino del 1850, non ricordo il suo nome»; anni dopo, grazie a un gioco di squadra filologico fra Gianfranco Contini, Enrico Falqui e Eugenio Montale, si scoprirà infine l’autore, tale Henri Becque, un oscuro drammaturgo dell’Ottocento; Campana aveva letto i suoi versi su un numero della “Revue illustrée” del 1888, ricordandoli per tutta la vita. Questa è una delle molte e preziose note al testo, tanto per segnalare la bellezza e la preparata originalità di uno studio critico che deve essere costato una vita intera.
L’opera di Dino Campana è un’avventura tanto poetica quanto filologica. «Le mie ricerche su Dino Campana» scriveva Sebastiano Vassalli ne La notte della cometa, «mi hanno insegnato quanto sia difficile ricostruire la vita di un uomo che non è stato storicizzato in vita. Ogni ricordo si perde nel volgere di pochi anni, al massimo di qualche decennio; le guerre e l’incuria dei vivi distruggono registri, archivi, documenti». E così nel Meridiano Gianni Turchetta assume una vera e propria attitudine da detective (ogni buon critico non è in fondo un detective?) nei confronti di un’opera tanto travagliata quanto estrema e grande. Ma forse tutto in Dino Campana è una continua investigazione, la giovinezza, i viaggi, gli studi, l’opera, il vagabondare e le follie, gli amori, il carteggio, da ultimo il silenzio e il manicomio. Nessun dettaglio deve essere trascurato. Dino Campana, osserva Turchetta, è un autore unius libri come pochi altri, quindi le oltre millecinquecento pagine di questo Meridiano possono davvero avvicinarsi a un’esattezza e a una completezza critiche ideali. Il poeta è trattato con passione e lucidità e soprattutto con rispetto.
Dino Campana è un poeta del suo tempo che riesce a giungere fino a noi e sicuramente ancora più oltre, creando un uomo nuovo che vada al di là della “morte di Dio” nietzschiana e del suo tanto decantato superomismo. «Sotto le stelle impassibili» si legge nei Canti Orfici, a conclusione del capitolo Pampa, «sulla terra infinitamente deserta e misteriosa, dalla sua tenda l’uomo libero tendeva le braccia al cielo infinito non deturpato dall’ombra di Nessun Dio» – e qui si approda davvero a una inedita illuminazione del reale e dunque del sentire umano, come è missione e forse dovere di ogni autentico poeta: qui la poesia comprende ed esalta la filosofia del suo tempo e nel farlo la supera.
Campana, pur non rinnegando i poeti che nutrono la sua voce (fra gli altri Baudelaire, Rimbaud, Whitman, d’Annunzio), crea una lingua e dei ritmi che ancora oggi ci suonano nuovi e ci meravigliano. La sua biografia e le sue lettere, il suo faticoso travaglio esistenziale, testimoniano di una vocazione pura e severa a un tempo nei riguardi della propria arte; si pensi a quando si univa controvoglia al gruppo degli intellettuali fiorentini, venendone deriso e sminuito, oppure a quando, pochi giorni dopo, ormai senza più soldi, dovrà lasciare Firenze mentre Marinetti e i suoi accoliti fanno «le puttane sul palcoscenico alla serata futurista incassando cinque o seimila lire». Campana ne scrive in una memorabile lettera a Emilio Cecchi, testimoniando della difficoltà di farsi comprendere e rispettare quale poeta dal milieu letterario e intellettuale del suo tempo. Nella stessa lettera dichiara che i Canti Orfici devono essere la giustificazione della sua vita.
Il carteggio di Campana a tratti ricorda le vette visionarie e ritmiche dei Canti Orfici, anche grazie al sofferto amore per Sibilla Aleramo. C’è, per esempio, un’altra lettera a Emilio Cecchi che inizia così: «Là tra Sorrento e Cuma dove il Vesuvio fuma si fuma divago caro Cecchi, mi sembra come se una montagna un’enorme montagna che enorme spettrale macabra perché non esiste si sia drizzata accanto e voglia esistere – voglia esistere voglia esistere questo è atroce che quello che non esiste voglia esistere – quest’incubo, voglia esistere a qualunque costo minacci di scomparire per esistere è atroce darei il mio sangue per dire che esiste ma non esiste è un incubo. Sono tre mesi che ci strappiamo di mano i resti del nostro amore». La lettera è del dicembre 1916, a poco più di un anno dalla definitiva reclusione in manicomio del poeta, e può essere accostata al brano della “nuvola bianca” dei Canti Orfici, sia pure per opposizione e senza assonanze né rime (ma con eguale visionarietà poetica): «O non accenderle! non accenderle! Non accenderle: tutto è vano vano è il sogno: tutto è vano tutto è sogno. Amore, primavera del sogno sei sola sei sola che appari nel velo dei fumi di viola. Come una nuvola bianca, come una nuvola bianca presso al mio cuore, o resta o resta o resta! Non attristarti o Sole!».
Anche il silenzio di Dino Campana è grande, perché da recluso, da folle, il poeta non può più scrivere. «La storia di Campana» avverte Gianni Turchetta nella cronologia del Meridiano, «resterà comunque un grido di dolore contro la violenza delle istituzioni: il manicomio, la clinica, la prigione». Infatti, se non si deve leggere l’opera di Campana come quella di un semplice folle, non si deve né si può ignorare la sua follia e di conseguenza la sua difficile sopravvivenza in un mondo che ne respingeva l’incomprensibile e talvolta violenta alterità. Dino Campana è stato pazzo malgrado la sua poesia e la sua energica lucidità di poeta e di studioso, non a causa di esse.
Cominciavamo questo articolo scrivendo che un Meridiano ben riuscito può evocare fantasmi. Il lavoro di Gianni Turchetta in effetti offre svariati appunti e immagini indimenticabili che fanno rivivere l’uomo e il poeta Dino Campana nella sua complessità. Le meraviglie poetiche, critiche e biografiche sono innumerevoli. Scopriamo, per dirne una, che Campana è stato uno dei primi lettori italiani di testi di psicoanalisi, in tedesco, capendone subito l’importanza e chiedendo di scriverne (in una lettera a Ardengo Soffici del 1915) su una rivista di Firenze, Lacerba; alla fine non se ne fece nulla. Ma l’immagine con la quale vogliamo concludere la nostra lettura è un’altra.
È il 1928 e l’editore Vallecchi pubblica finalmente una nuova edizione dei Canti Orfici. Gianni Turchetta racconta:
«Campana ne riceve una copia e per molto tempo non la guarda nemmeno. Quando ha modo di leggerla, nella primavera del 1930, ne nota la trascuratezza filologica e la segnala, sobriamente e lucidamente, a Binazzi, autore dell’introduzione, a Pariani e al fratello Manlio».
Ecco: Turchetta sottolinea a ragione la lucidità di un Dino Campana ormai quarantacinquenne, che rilegge nel manicomio di Castel Pulci la riedizione dei Canti Orfici e ne nota la trasandatezza filologica, e noi pensiamo alla stessa attenta lucidità dello sguardo che ci osserva dalla custodia del Meridiano, Dino Campana a trent’anni, un uomo e un poeta straordinario giunto dal secolo scorso ai giorni nostri, meteora bruciante e viva che non smetterà mai di sorprenderci e di sconvolgerci.