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Lo spazio per essere liberi in Piccoli mondi di Caleb Azumah Nelson

Un romanzo che si intreccia intorno alla musica, alla fotografia, alla letteratura. E al silenzio

C’è qualcosa che accomuna musica, fotografia, letteratura e che è ben presente nel volume Piccoli mondi di Caleb Azumah Nelson (Atlantide), classe 1993, britannico-ghanese, fotografo e scrittore. Dopo l’acclamato esordio letterario con Open water (2021), nel 2023 arriva ai vertici delle classifiche inglesi con Small Worlds, pubblicato per Atlantide nella traduzione italiana di Anna Mioni. Si tratta di un romanzo di formazione che risulta particolarmente vincente, perché al suo interno convivono una grande capacità espositiva e una messa a fuoco sicura, che creano un’immagine che arriva al lettore con una forza straordinaria.

Piccoli mondi, di Caleb Nelson

Stephen, il protagonista, figlio di immigrati ghanesi, vive a Londra dove sogna di diventare un musicista jazz: si riconosce da sempre, infatti, soltanto in musica, dove la lingua non basta per comunicare, dove se durante una jam session gli esce una nota strana mentre suona il suo strumento, la tromba, si sente libero di commettere un errore. Perché all’orecchio giusto, quello di Del, contrabbassista e sua migliore amica, quell’errore diventa intenzione e, aggiungendo qualche nota, si riesce a creare qualcosa di bello, insieme; nell’improvvisazione, nella calma, nelle giornate al mare a scattare foto su rullini e fumare, a capire di essere innamorati l’uno dell’altra, Del e Stephen creano il loro ritmo fatto di luce e di spontaneità.

La peculiarità di questo libro è che, nonostante la storia sia piuttosto semplice (un amore che deve attraversare il cambiamento e l’incertezza tipica di quel periodo in cui non si è più adolescenti, ma neanche adulti), essa viene raccontata proprio nei modi della musica. Nelson, infatti, riesce a creare uno speciale rapporto d’intesa con il lettore grazie a frasi ripetute, che diventano quasi ritornelli, simili a se stesse, ma che assumono una sfumatura diversa via via che la storia prende forma e che si possono facilmente paragonare all’ascolto di una melodia. L’autore riesce a fornire suono alla lettura e al lettore sembra di sentire il ritmo della musica jazz quando legge innumerevoli volte e in diversi contesti «a presto, che non è tanto un addio, quanto la promessa di restare vivi», oppure il fatto che «non è che non si ricorda, è che non si riesce a dimenticare». Oltre alle frasi ripetute, che forniscono questa speciale sonorità alla lettura, contribuiscono a creare ritmo alcune sezioni narrative nelle quali si racconta la medesima vicenda, con l’utilizzo degli stessi termini, ma da due punti di vista differenti, generando un botta e risposta davvero interessante; si noti, infatti, che il “botta e risposta” è in musica una pratica piuttosto diffusa nel blues e ha le sue origini proprio nell’Africa subsahariana.

Ma non è solo questo a rendere la musica elemento centrale della narrazione: l’autore, oltre a mettere come epigrafi due citazioni tratte da canzoni, nomina innumerevoli brani che richiamano la trama. Singolare è il fatto che si possa trovare sulla pagina Instagram dell’autore il collegamento a una playlist ufficiale su Spotify con tutte le canzoni del libro: si spazia da Waiting In Vain di Bob Marley & The Wailers a Heart Attack di Dave, passando per Stevie Wonder, Alicia Keys, Aretha Franklin e molti altri.

Caleb Azumah Nelson

Questo libro, però, non parla soltanto di musica e di amore: al suo interno sono accordati molti temi interessanti, a partire dal legame con le proprie radici. Il protagonista conosce molto bene la cucina ghanese, grazie agli insegnamenti di una madre affettuosa e ad un lavoro che si trova quasi nolente a svolgere, e nel libro troviamo riferimenti a piatti tipici e tradizioni africane. Il senso di una comunità che si stringe, in un paese diverso da quello di origine, e che deve per questo fare i conti con la diversità, sia rispetto a chi è restato o tornato in Ghana, sia rispetto a chi non ha mai conosciuto la cultura africana, emerge molto bene in Piccoli mondi: Nelson riesce a travolgere il lettore e a farlo sentire partecipe attraverso immagini delicate, come quella di due ragazze che si aiutano ad intrecciare i capelli afro o l’abitudine a recarsi in chiesa per condividere la sacralità dell’intimità, nonostante la fede nei più giovani vacilli, nonostante la sacralità in loro sia più legata ad un ritmo che ad un dio.

Nelson delinea dei personaggi a cui ci si affeziona facilmente: i profili dei genitori di Stephen sono tracciati con cura, e anche Raymond (il fratello maggiore di Stephen, supporto e confronto costante del protagonista, che mostra di sé ricchezze e fragilità) centra il segno in diverse occasioni ed è rappresentato in modo convincente; come quando dichiara: «Sono incoerente. Ho un sacco di amore ma non riesco a tenerne per me neanche un po’». Anche i personaggi che stanno più sullo sfondo, che sono soltanto accennati, hanno uno spazio preciso nella narrazione, come la zia Yaa, che deve chiudere il suo negozio di prodotti tipici ghanesi a Londra e non ha più un posto o, addirittura, un conoscente che viene nominato solo un paio di volte e che, da quando ha perso il padre, ha sempre un abbraccio pronto per Stephen, quando lo incontra.

La musica per Stephen è uno spazio fondamentale, ma quando si trova a doversi confrontare con le difficoltà della vita, che non riguardano soltanto l’amore ma, purtroppo, anche la discriminazione razziale, gli amici che vengono aggrediti a causa del colore della propria pelle, il rapporto complicato con il padre, il lutto, la necessità di bere per farsi coraggio, un’università in cui non si sente se stesso. Quando la musica svanisce e non resta che silenzio, le consapevolezze vacillano e chiedersi chi si è e quale sia il proprio posto nel mondo diventa imperativo

È evidente che il tema dello spazio nel libro sia fondamentale; il concetto di spazio si lega a quello di tempo in modo peculiare: la storia è organizzata in tre sezioni, ciascuna delle quali racconta di un’estate, perché in estate «è più facile levarsi di torno il malumore e rimanere concentrato sul presente». L’arco temporale del romanzo va dall’estate 2010 all’estate 2012. Lo spazio, in Piccoli mondi, non è mai sufficiente: i mondi che abita il protagonista sono piccoli, sia in famiglia, sia con gli amici, con cui ogni sera ci si arrovella per trovare un posto in cui andare a ballare, in cui suonare, in cui stare. Così, è chiaro che ciascuno di noi abita un piccolo mondo, fatto di dettagli che possono sembrare insignificanti ma che, in fin dei conti, sono quello che siamo – come ad esempio il fatto che Del non sia capace di fare l’occhiolino, i molti orecchini di Annie (un altro personaggio speciale) che emettono un preciso suono quando si muove, gli occhiali da aviatore con lenti trasparenti dello zio Tom.

La paura è sempre quella di non avere un posto, di non trovare spazio nei nostri piccoli mondi, ma Nelson in questo libro ci suggerisce anche un’altra concezione di spazio: ciò che si evince dalla lettura è che gli spazi che contano non si misurano in metri cubi, ma in ciò che rappresentano. E che lo spazio per essere liberi, felici e belli non è fatto di stanze, né di nazioni, ma di mani che si toccano e del piccolo mondo che rappresenta ciascuno di noi che si incontra con un altro piccolo mondo, quando qualcuno ti rassetta il colletto della camicia, quando qualcuno conosce il tuo ritmo anche quando resti immobile. Piccoli mondi è un libro sui rapporti, sulla comunicazione, sulla difficoltà di esprimere il proprio io che si scontra con l’importanza di interagire con gli altri, e sugli spazi che gli altri lasciano vuoti quando dicono «non ho bisogno di te» (soprattutto se a dirlo è tuo padre). Un libro sulla musica e sul silenzio

«[…] Avendo per le mani questa lingua che è più fardello che strumento, e resta in bilico in un punto dove va perso qualcosa tra l’espressione e l’emozione. A volte, davanti a un trauma, è più utile il silenzio. Lascia il tempo a chi è in lutto di elaborarlo, di organizzarsi, e al sentimento di perdere vaghezza e fossilizzarsi, e di provare a esprimere a parole quello che ci è stato fatto. E se non le parole, allora il suono, la musica, il ritmo, un ah, un sussulto, un mormorio, un gemito, una tracimazione, un diluvio. Ma un silenzio prolungato, quello sì che potrebbe consumarci.»

Comunicare con gli altri è l’unica cosa che ci consente davvero di uscire dal nostro piccolo mondo e, dunque, di avere la possibilità di trovare il nostro posto e di essere davvero liberi. È attraverso il contatto con gli altri che è possibile capire noi stessi; e, dunque, Piccoli mondi è un libro sulla libertà di essere ciò che si è, che è anche ciò che accomuna musica, fotografia e letteratura.

Immagine di copertina di Wired
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