Io credo che una bella copertina sia un valido motivo per acquistare un libro. Non so se questo faccia di me una persona superficiale, ma so che mi rende molto difficile rimpiangere di aver comprato un libro, anche quando poi non ne amo particolarmente il contenuto. Mi accadde nel 2018 quando uscì l’edizione Iperborea dell’esordio romanzesco di Siri Ranva Hjelm Jacobsen, Isola: la copertina con l’illustrazione di Federica Bordoni era irresistibile, e infatti non resistetti, ma al contrario di molti che trovarono irresistibile anche il romanzo, il libro non mi colpì, e, cosa non frequente per me, mi lasciò un ricordo molto vago.
L’ho ripreso in mano quest’anno, nel 2021, quando Iperborea ha pubblicato il secondo libro di Jacobsen, Lettere tra due mari, sempre nella traduzione dal danese di Maria Valeria D’Avino. A una seconda lettura ho saputo apprezzare di più Isola e queste impressioni così diverse mi hanno permesso di individuare una certa caratteristica della scrittura di Jacobsen.
Ebbene nel 2018 la trama della mia vita aveva preso una piega che non mi aspettavo e che mi stava intrattenendo molto, erano entrate persone e passioni nuove, era un momento pieno, con un ritmo veloce e io ero entusiasta e proiettata verso il futuro; non ero nella disposizione di spirito adatta a entrare in sintonia con Isola, che è un libro malinconico, riflessivo, intimista, che guarda al passato: Jacobsen, che è danese, ma di origine faroese, raccontando della sua famiglia e in particolare della vita di sua nonna, ragiona sul valore delle origini, sui legami di sangue e con i luoghi, sull’identità e sull’esperienza dello sradicamento, sulle sue ripercussioni per generazioni a venire. Ho scritto «ragiona», ma rischio di fuorviare, perché Jacobsen non argomenta queste sue riflessioni, che scaturiscono piuttosto dal racconto, dal modo che ha di soffermarsi su determinati aspetti delle cose, di descriverle con una lingua elementale, che ricorre sempre a immagini, che riporta ogni cosa al primigenio. Isola è un libro emotivo e dolente, che si presta a una lettura lenta, per attivare un certo lato della sensibilità di chi legge. Molto più facile per me a questa altezza, in cui la trama della mia vita languisce, il futuro (come per tanti) è una foschia, e il passato si rimanifesta con insistenza alla mia attenzione.
Anche Lettere tra due mari si presta a una lettura lenta – quasi a una recitazione forse – anche perché il testo è corredato dalle illustrazioni firmate da Dorte Naomi, il cui stile non è figurativo, ma nemmeno informe e l’occhio è attirato dalle figure a ricercare il familiare, come in un test di Rorschach. Inoltre anche questo secondo libro di Jacobsen Iperborea ce lo presenta in una confezione irresistibile in copertina rigida.
Laddove però Isola era un libro intimista e ripiegato su se stesso, in cui l’autrice si voltava indietro e si concentrava su un microcosmo circoscritto – isolato appunto – famigliare e delle Faroe, un libro di terra e di roccia, Lettere tra due mari è un libro che si spalanca sull’orizzonte, che guarda al futuro, un libro in cui domina l’acqua. Il titolo è didascalico: si tratta della corrispondenza tra Atlantica e Mediterranea, due personificazioni femminili dei mari, una sorella maggiore e una sorella minore separate dal sorgere traumatico della terra emersa, di cui attendono l’inabissarsi per potersi riunire.
«Le corrispondenti
Atlantica
Centottanta milioni di anni. Anziana e burbera, ma non sprovvista di una certa tenerezza. Ama l’universo. Niente può sorprendere queste acque.
Mediterranea
Cinque milioni di anni. Sorella minore di Atlantica. Adora scintillare, Icaro e quando grandi banchi di animali si spostano nella corrente.»
Lo scambio epistolare è breve e conciso, la prosa di Jacobsen, che già in Isola era asciutta qui ulteriormente è ridotta all’essenziale, in questo caso espressivo delle due voci marine, personificazioni mitologiche che molto attingono dalla tradizione greca, anche esplicitamente, con una suggestiva rilettura del mito di Dedalo e Icaro. Impossibile non pensare ai Dialoghi con Leucò di Pavese. Queste due voci, Atlantica piena di rancore contro la terra e Mediterranea invece colma di compassione per i suoi abitanti, servono a Jacobsen per esprimere un lamento condiviso per due dei grandi dolori collettivi che affliggono il nostro tempo: la catastrofe ecologica e la tragedia della migrazione. Scrive Mediterranea alla sorella:
«Prima era un po’ meglio, ma adesso le creature mi attraversano di continuo nei loro bacelli, troppe in un bacello solo. Le ascolto affondare a banchi. Lo schiocco dei cervelli che affiora a poco a poco e si spegne. Si cullano sul fondo, con i polmoni che scoppiano di plancton e piccoli crostacei. Quando arrivano le anguille, distolgo lo sguardo.»
L’esperienza traumatica della migrazione era un tema anche in Isola, ma in Lettere tra due mari con un movimento di apertura Jacobsen si sposta dalla dimensione personale e individuale del suo esordio a un respiro cosmico, che nell’abbracciare l’eterno si schiera su questioni d’attualità.
« Cara sorella,
tra non molto, grandi foreste riscresceranno in noi, fitte e nere di nutrimento. Pensa a questo.
Pensa che saremo l’unico suono al mondo.
Tua A.
Mia cara,
perdonami, ma quest’idea mi sembra terribilmente desolata.
M.»
Photo credits
Copertina – Annie Spratt tramite Unsplash
Ritratto – Kajsa Gullberg