«Di chi è la voce che parla, in poesia?», è la domanda che spicca in bandella nella silloge poetica della scrittrice, docente e critica letteraria Gilda Policastro, intitolata La distinzione, uscita quest’anno con Giulio Perrone Editore. La questione inesauribile dell’Io in poesia e in letteratura è stata messa a nudo nei recenti appuntamenti letterari di Gilda in Veneto, in occasione della presentazione del suo libro e dell’incontro in omaggio a Vitaliano Trevisan[1], scrittore che lei stessa ha conosciuto da vicino e la cui presenza faceva “il suo effetto”.
Il rapporto di Trevisan con la critica era conflittuale, senza spazio alcuno a sconti o compiacimenti, come in fondo lui per primo si rapportava col proprio scrivere e con se stesso; in un’intervista sul suo libro Works, Gilda gli propose una collocazione dell’opera «in un filone che ha tra i padri Volponi e Morselli»; in risposta lui premise subito: «non ho letto né Volponi né Morselli».
Al contempo era comunque un autore disponibile, per quanto il suo carattere potesse far credere il contrario, a presenziare agli incontri letterari e alla lettura dei suoi stessi testi. Si trattava – è importante sottolinearlo – di uno dei rari scrittori in grado di leggere mirabilmente i propri testi e lo si può apprezzare dai materiali video disponibili in rete: non passano inosservati, né inascoltati, i momenti in cui il suo colloquiare spezzato e laconico, talvolta al limite del biascico o del mugugno, acquisiva improvvisamente ordine, forma e ritmo nel disporsi alla lettura di una qualunque sua pagina. Consapevole dell’impronta musicale – dunque poetica – della prosa di Vitaliano (appassionato di batteria e musica jazz) e della sua stessa recitazione, Gilda ottenne la sua collaborazione per l’apertura dei corsi di poesia all’accademia di scrittura Molly Bloom; lui acconsentì a patto che l’incontro si intitolasse “Poesia e prostituzione”, proposta che poteva apparire provocatoria, se non fosse riferita ad alcuni suoi testi allora ancora inediti, oggi confluiti nell’opera postuma Black Tulips, incentrata proprio sul tema della prostituzione in Nigeria.
Trevisan era uno scrittore che sicuramente dai suoi maestri (fra cui i dichiarati Beckett e Bernhard) accolse il lavoro incessante sulla parola – quale elemento sfuggente del discorso e della scrittura – e sul ridimensionamento del ruolo della trama e dei personaggi nel racconto; in particolar modo il personaggio dell’Io, da cui siamo partiti in questo articolo e di cui non ci siamo e non potremmo dimenticarci. «Ma non sono io (in negativo pronome odiato posso scrivere), non sono io a parlare», scrive Vitaliano in Black Tulips, «L’io puzza» scrive Gilda in Scrolling, una delle poesie che compongono La distinzione. L’Io è ubiquo e ipertrofico, è pensiero che nutre se stesso, si autoesalta e autoaffligge, si sprigiona e si imprigiona, come in molta scrittura di oggi, sovrappopolata di poeti “soli et pensosi” in preda a incontenibili slanci interiori e moventi naturalistici, invocati e denunciati da Gilda nella sua (poesia e basta):
«Voglio cominciare io
Questo giochino di annegamento della poesia
Nei bei versi del gran mare di niente
Poesie tramonti
Poesie gabbiani
Poesie del di fuori
Dal di dentro»
Come farlo fuori questo Io, come rubargli la scena? È la domanda delle domande. Se la posero negli anni ‘60 i poeti novissimi, da Sanguineti a Giuliani, se la sono posta oggi Trevisan e Policastro, che già sulla copertina de La distinzione obietta: «Io, forse, non sono nemmeno qui ad ascoltare». Se l’Io non ascolta, allora proviamo ad ascoltare. «…sempre a parlare e ascoltare, e di nuovo parlare, mentre preferirei solo ascoltare, che è la mia specialità», scrive Vitaliano in Works. Non è un caso che fra le procedure compositive sperimentate da Gilda vi sia l’eavesdropping, ovvero la ricezione casuale di frammenti di voci esterne. In un tiro alla fune tra attenzione e disattenzione, i poeti possono esercitare la pratica dell’ascolto tanto quanto gli stessi lettori (durante le sue presentazioni la scrittrice è solita invitare il pubblico ad una lettura randomica di frammenti da lei stessa captati).
La distinzione è una raccolta che dedica molti dei suoi versi a temi ricorrenti nell’opera di Gilda Policastro, quali la malattia, organica e psichica, e l’ospedalizzazione. Dall’ospedale si può essere dimessi, ma non se ne esce mai del tutto («staccati dagli aghi ci sveglieremo tutti sani o più malati») e l’esperienza del ricovero, per l’autrice, è funzionale quanto quella della leva militare: concreta e cruda esperienza di ritrovarsi fra esseri umani, averci a che fare, capirci qualcosa fra sani e malati, vivi e morti:
«I depressi si dividono in due categorie:
quelli che non muoiono e quelli che sono in cura perenne»,
sono alcuni fra i tanti versi tratti dall’intermezzo Suite depressiva, che scandaglia le sindromi fino al punto di constatare che dell’ineluttabilità della sofferenza e della mortalità si possa, attraverso la poesia stessa, persino ridere («Poesia risate a denti stretti poesia chi ride ha coraggio»):
«Un talent per depressi, monitorati h24
il depressometro, uno strumento di sicura efficacia
per il rilevamento dei sintomi
No, niente cura: importante tenere il depresso bello scarico
così che lo puoi usare come alibi»
Anche leggendo le spudorate confessioni in Works di Trevisan, che ebbe nella depressione la sua più accanita compagna, non si può fare a meno di stringere i denti, quando per soffrirne, quando per riderne:
«Mi accorgo di essere un po’ euforico, quasi di buon umore. Per un momento mi preoccupo. Poi mi ricordo: Depakin da 500 mg due volte al dí; Zoloft da 50 la mattina; Mirtazapina Bluefish (!) da 30 la sera; e 10 gocce di En mattina e sera. Piú un paio di canne, una a metà pomeriggio, l’altra la sera, che mi sono prescritto di mio appena dimesso. Perciò no, mi dico, non c’è da preoccuparsi. Il buon umore è un effetto collaterale. Passerà.»
I farmaci, non c’è da nasconderlo o vergognarsene, sono il comune denominatore dei soggetti depressi: a soffrire sono sempre in tanti e i principi attivi sono sempre quei pochi. Gilda Policastro in BZD expertise:
«Non è il Depakin, il Citalopram o lo Zoloft
una settimana 4, un’altra 3, poi 2 e stop
[…]
Io ho smesso perché mi rallentava i riflessi,
anche a dosi minime: me ne sono accorta con la danza
Io lexotan, librax, poi valium»
Come scrivere di depressione senza che sia depressa la scrittura stessa? Come prendersi cura del pensiero ossessivo, come ascoltarlo senza farsene ossessionare? Questione inesorabilmente rincorsa nella camminata folle de I quindicimila passi, il romanzo d’esordio di Trevisan:
«Ma se sono ancora qui, pensavo camminando, vuol dire che in fondo non sono mai stato del tutto convinto dall’idea del suicidio. L’ho sempre tenuta lí, pensandoci e ripensandoci di continuo, pensavo, ogni momento e di continuo, ma non me ne sono mai convinto del tutto. Del resto, pensavo ancora, come non pensare a qualcosa, quando questo qualcosa è sempre presente?»
Questione inesorabilmente aperta e paradossale nelle poesie di Policastro:
«Io e la morte siamo amiche da tempo, abbiamo fatto un patto:
ricevo diagnosi fatali, condivido, inoltre
ne parlo: non parlo d’altro
[…]
Legatemi la testa, non voglio morire
(nessun suicida vorrebbe mai)»
Nel bel mezzo di ogni paradosso e alla larga da ogni consolazione, ciò che oggi può rivalutare il lavoro di ricerca sulla scrittura è portare il pensiero al riparo dal già rappresentato, scovare una via di fuga dai sentieri battuti dal “poetese”, dagli stilemi, dai sentimentalismi e i naturalismi, prendere distanza dalla convinzione – e la convinzione è sempre un vizio del pensiero – che l’afflato poetico possa sgorgare solo da un immaginario artistico di repertorio oramai divenuto soltanto una moda passata di moda ma ancora di moda.
Questa credo sia l’intenzione primaria che accomuna la ricerca nella scrittura di Vitaliano Trevisan e Gilda Policastro.
[1] Il 30 giugno l’omaggio a Vitaliano Trevisan con Luca Illetterati e Matteo Giancotti presso “Atipografia” di Arzignano e il 1° luglio la presentazione de La distinzione con Luca Rizzatello presso la libreria Zabarella di Padova.