Urla sempre, primavera, in libreria per NN Editore, irrompe nella nostra narrativa come un colpo di pugnale che squarcia una tela, alla stregua di un agguato iconoclasta. Il romanzo sbaraglia tutte le pigrizie del nostro panorama e ha l’ambizione non già di disseppellire un’idea di letteratura ma di suscitarla. Dalla Bologna distopica di Giovani nazisti e disoccupati (Castelvecchi, 2010) all’attentato terroristico di Un marito (Rizzoli, 2018) Michele Vaccari è prigioniero di un’ossessione che prima ancora di essere feticcio letterario è statuto dell’anima.
L’autore, classe 1980 – temprato in una città come Genova che è stata la proiezione in sedicesimo della storia del paese, dalla nascita del partito socialista alla Resistenza, dall’assassinio dell’operaio Guido Rossa firmato dalla Brigate Rosse al G8 del 2001 – muove da un antagonismo irriducibile per l’esistente (è una tara dei genovesi, vedi alla voce Sanguineti e don Gallo). La sua è una radicalità che nella scrittura non trasferisce la mera denuncia né tantomeno il velleitarismo estetico di “riparare il mondo”. Il risarcimento per Vaccari è tutto dentro il perimetro della fabula e dunque il movente semmai è ricreare il mondo.
Ecco allora che il compito che si è dato l’autore non è tanto entrare nel campo della realtà e mostrare una formula di gioco alternativa ma fargli direttamente concorrenza realizzando accanto un campo nuovo. In questa sfida temeraria nel fantastico Vaccari non è certo il primo e non è certo il solo. Già parlare di fantastico sarebbe improprio perché tautologico: dire letteratura fantastica equivale a dire letteratura letteraria. Come restituire la realtà, ovverossia la Storia nel suo divenire, dominandola anziché esserne dominati? Basta truccarla, rivestirla di costumi improbabili e poi farla ballare davanti a un fondale di cartapesta. Vaccari compie un passo ulteriore. Il suo universo parallelo è l’inconscio. È dentro lo spazio onirico che tutto ciò che è accaduto può allo stesso tempo non riaccadere più o riaccadere ancora ma con esiti capovolti. Vaccari ha ben assimilato la lezione di un Neil Gaiman con la sua serie di fumetti Sandman (il protagonista controlla il mondo dei sogni) o di un Jonathan Carroll (nel suo Ossi di luna la protagonista nel sogno si ritrova con il figlio abortito a salvare da un sovrano malvagio un’isola popolata da creature surreali). Una faccia del prisma epico di Urla sempre, primavera è non a caso nel personaggio di Egle che, dotata del potere telepatico di entrare nei sogni altrui e di imporre una sua sceneggiatura, è determinante per neutralizzare uno scioglimento funesto dell’intreccio.
Lo scenario che Michele Vaccari imbastisce, tra le due estremità «Prima di crearsi, l’Universo immaginò se stesso» e «Abbiamo già detto troppo», si dipana in 440 pagine contese da protagonisti narranti immersi in una Genova storicamente intesa e futuribile. L’autore, sulla falsariga della Rimini inventata di Fellini in Amarcord, sembra “girare” il suo romanzo nei luoghi autentici (la toponomastica qui ha dignità di personaggio vero e proprio come nella Parigi di Modiano) ma è chiaramente sul set di una Cinecittà mentale che si aggira col suo megafono. I tempi della storia e della narrazione si dilatano e si contraggono in una sovrapposizione che per paradosso diventa atemporale. Potremmo dire che il romanzo non comincia e non finisce, in una circolarità che tiene insieme lo stile, la struttura del racconto e il racconto in sé.
Non c’è più bisogno di “riconoscere” ma solo di “conoscere” perché il lettore precipita in una voragine incantata che basta a se stessa. Urla sempre, primavera corre lungo un lessico famigliare che scandisce la Storia e che il lettore ricompone a posteriori perché nel disegno visionario di Vaccari la linearità è giustamente bandita. Proviamo a definire per sommi capi una cronologia ordinata per restituire l’ingegnosità del plot. Spartaco Delfino nasce nel 1929, partecipa alla Resistenza e nel dopoguerra, tuta blu all’Italsider, prende coscienza della sua omosessualità. Rinnova il suo temperamento anarchico aderendo alle lotte di rivendicazione queer (omaggio alla figura di Mario Mieli) e si ritrova coprotagonista nel 1972 di un attentato a Enrico Berlinguer, reo di guidare un Partito Comunista misogino e omofobo (qui Vaccari denuncia l’ipocrisia immobilista della sinistra italiana sui diritti civili e azzarda un’educazione sentimentale del terrorismo che ricorda la “dolcezza di cui disfarsi” che anima gli uomini del lutto in Alonso e i visionari della Ortese).
La Storia d’Italia frattanto cambia e Spartaco, grazie a un’inseminazione artificiale, diventa padre di Zelinda che nasce nel 1998. La ritroviamo movimentista nel 2022, orfana di un socialismo libertario spazzato via dall’attentato al Duomo di Milano del 2019 (scena fatale di Un marito) che in virtù di una precisa strategia della tensione porta gli elettori a rifugiarsi nella reazione. Sale dunque al potere la Venerata Gherusia, oligarchia di uomini anziani, che impedisce alle generazioni successive di nascere e che stabilisce una programmata dismissione delle persone entro l’8 settembre 2043 (si sente l’eco dell’estinzione del genere umano di Dissipatio H.G. di Morselli e di La scimmia e l’essenza di Huxley). Zelinda la ritroviamo infatti in fuga dalle Milizie perché incinta e dunque fuorilegge (chissà che questo profilo di donna rivoluzionaria non sia sedimentato in Vaccari in virtù di Ms Kalashnikov di Wu Ming 5 con Francesca Tosarelli, libro centrato sulle guerrigliere congolesi). Riesce a rifugiarsi con Guido, il suo uomo, in collina, accolta dai fuggiaschi Carlo Giuliani (ecco l’imprinting del G8) e Nadia, e a portare avanti la gravidanza. Ma il tradimento di Michele, figlio di Carlo, poi premiato dal regime con il ruolo di commissario, costringe Guido a lasciare la figlia Egle in un bosco gremito da altri orfani scampati e dove viene allevata dagli animali, frattanto cacciati dalla metropoli (non a caso in esergo compare una citazione da Il pianeta irritabile di Volponi con il suo scenario postatomico di animali superstiti). Egle eredita dal nonno Spartaco, morto a 113 anni nel 2041 (il cui cadavere è ritrovato proprio dal commissario Fellone) il dono di entrare nei sogni altrui e a lei spetta la missione, prima della fatidica data dell’8 settembre 2043, di scongiurare l’ecatombe antropologica penetrando nei sogni del Presidente della Venerata Gherusia e bonificarne i principi.
Urla sempre, primavera è un mosaico tanto fitto di corrispondenze che può essere letto come Ronconi amava dire di guardare il suo teatro: lo spettatore/lettore può anche smarrirsi ogni tanto perché ciò che conta davvero è l’incanto della messa in scena e qui più precisamente sulla pagina conta trattenere la meraviglia della fiaba. Il lettore è catturato a tal punto dal dono del sogno da temere egli stesso di essere un personaggio sognato dentro un sogno.