Quando si pensa agli autori di riferimento del secondo Novecento in Italia, si pensa, o quantomeno si pensava, quasi sempre a Calvino e Sciascia (e Pasolini). I canoni, lo sappiamo, hanno molti limiti eppure confrontarsi con idee che con tale forza hanno caratterizzato il nostro recente passato non può sicuramente far male.
L’illuminismo mio e tuo, Carteggio 1953-1985 (Mondadori 2023), è una pubblicazione importante, da questo punto di vista, perché raccontando la storia della corrispondenza umana ed intellettuale straordinaria tra Sciascia e Calvino, riesce a suggerire ancora parole e idee decisive. Il libro, che comprende pure alcuni interventi in cui i due autori parlano l’uno dell’altro, è curato dalle sapienti mani e dai profondi sguardi di Mario Barenghi e Paolo Squillacioti, esperti di straordinaria dedizione dei due scrittori.
È un libro sui doveri, sulla ricerca, personale e collettiva, sulla letteratura come laboratorio di esperienze e di fallimenti, di finzione e di verità, di verità tradita da imposture, di finzioni che ambiscono al mondo della metafisica.
Certo, il rischio della deriva nostalgica è dietro l’angolo. Ma non credo sia questo il caso poiché, nonostante le nostre rimozioni quotidiane, i temi, le ossessioni, le intuizioni, come anche le sviste, di questi intellettuali sono pietre di inciampo tuttora, spesso a nostro scorno. Le nuove generazioni hanno il compito e la fortuna (o la sfortuna) di sapere di più, e Calvino e Sciascia hanno per tutta la loro vita di scrittori cercato di lasciare semi e talee a vantaggio di questa nuova crescita. E lo hanno fatto anche nelle loro fasi di maggiore pessimismo, che però era un pessimismo di padri, pedagogico (solo chi soffre sa dice Eschilo tradotto da Pasolini): la loro impietosa disamina del tradimento di tutte le speranze nate dopo la fine della seconda guerra mondiale, era pur sempre e contemporaneamente l’ambizione per un mondo nuovo.
È quindi giusto, ogni tanto, fermarci e guardare se tali germogli si aprono o se si nascondono dentro perule sempre più spesse e coriacee. Questo carteggio è lo specchio utile a un approccio retrospettivo così come ad un giudizio sui padri, e su noi figli. Ci permette di riscoprire una saggezza forse perduta ma al contempo ci mostra insicurezze, timidezze, ansie nascoste dietro la tetragona foggia letteraria dei due autori.
Ci sono le lettere che un ancor giovane Sciascia inviava dalla sua città del mondo, Racalmuto, che forse fuori dalla Sicilia nessuno conosceva, e forse neanche dentro l’isola. Calvino legge le idee, le scoperte e le proposte di quell’intellettuale così legato alla sua terra di confine ma già cosmopolita. Legge, consiglia, indirizza, ma soprattutto ascolta. (Da questo punto di vista, mi preme sottolineare che, nonostante si dica tutto il male possibile della digitalizzazione e del social, è pur vero che hanno fatto rinascere un nuovo e più libero dialogo tra autori e lettori, in particolare quelli appunto lontani o lontanissimi, altrimenti naufraghi in una geografia sconosciuta).
Dopo la pubblicazione de Le parrocchie di Regalpetra per Laterza (titolo esplicitamente importato da Nino Savarese), il dialogo già fitto tra i due diventa per Sciascia irrinunciabile quando su i Gettoni di Einaudi si programma l’uscita de Gli zii di Sicilia (1958). Pubblicazione accidentata, come si legge da certe lettere di uno Sciascia a tratti contrariato ma fiducioso nel suo interlocutore a distanza, l’unico a cui si affida ciecamente.
Molta cura, del resto, entrambi dedicano a rimeditare su questi racconti che hanno già il più puro sguardo sciasciano, classico e innovativo. Spesso proprio grazie ai consigli di Calvino.
Quando si arriva alle missive che riguardano i capolavori più maturi dei due autori, troviamo i noti giudizi di Calvino che risuonano con lo stesso rigore e la stessa forza analitica di quando furono scritti: la grande critica funziona così, suppongo.
Ecco un estratto, a proposito de Il giorno della civetta: «finezza letteraria, abilità, scrittura sorvegliatissima, gusto saggistico quel tanto che ci vuole e non più, colore locale quel tanto che ci vuole e non più» (Torino, 30 settembre 1960). E poi c’è il giudizio su Il Consiglio d’Egitto, romanzo totem di Sciascia, romanzo mondo, romanzo di una storia più attuale della cronaca. Non mancano neanche le stilettate, quando ad esempio Calvino suggerisce che ormai del mistero siciliano l’opera sciasciana ha fatto piena luce e che forse bisognava andare oltre. Ma tutto è Sicilia, del resto, per Sciascia. Da lì a poco, in ogni caso, passerà a narrazioni più enigmatiche, forse senza luogo, ma pienamente nel nostro tempo, come il libro che in fondo è il più acuto sguardo sulla repubblica democristiana, ovvero Todo modo. Anche in questa evoluzione si sente quindi il reciproco ascolto tra i due scrittori. E si percepisce con evidenza il loro percorso parallelo. Basti pensare a come Calvino propone le sue ipotesi di soluzione ai misteri insolubili delle trame sia dello stesso Todo modo sia de Il contesto. Un amaro divertimento, una confessione di impotenza, ma comunque un dovere di indagine che ci manca, oggi che il travisamento del ruolo della letteratura è preoccupante più che mai.
Negli anni Ottanta, il carteggio si dirada, e non penso sia un caso, guardando a cosa sia stato per l’Italia quel decennio.
C’è un residuo tempo per la tenera premura di Sciascia, nel funesto 1985, per avere buone notizie sulla salute di Calvino, che non arriveranno mai.
Il Novecento letterario italiano finisce probabilmente lì, avvolto da quel silenzio.
Illustrazione di copertina di Giovanni Castaldi