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L’errore che abita le case. Una conversazione con Luca Ricci

Vincitore del Premio Chiara 2006, L’amore e altre forme d’odio è il volume che raccoglie i racconti firmati da Luca Ricci, pubblicato in una nuova edizione nel 2020 da La nave di Teseo. Una costellazione di storie minime che si gonfiano e implodono nel chiuso delle case – al riparo da occhi indiscreti – dove si consuma un’epica familiare fatta di piccoli, a volte impercettibili, moti d’odio e di amore. Per Limina, la conversazione tra Luca Ricci e Stefano Malosso sui temi del libro, un dialogo che diventa una più ampia riflessione sulla forma-racconto, sul senso della scrittura tra realtà e fantastico e sui nuovi scenari della narrazione.

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Malosso: L’amore e altre forme d’odio è tra le tue prime opere, e già nel titolo custodisce il tema amoroso, che poi attraverserà le tue opere a venire fino alla quadrilogia delle stagioni con Gli autunnali e Gli estivi. L’amore come motore narrativo?
Ricci: I racconti brevi che compongono L’amore e altre forme d’odio sono stati scritti nei primi anni del 2000. All’epoca ero un ragazzo di brutte speranze, arruffato, sempre con l’aria di uno che si è appena svegliato o ha appena scopato, un po’ borderline riguardo alla propria vita, per niente convinto che la sua strada fosse quella degli altri (scegliere una facoltà, studiare, laurearsi), abbastanza indifeso nelle relazioni umane (cosa in cui mi sento di essere cambiato pochissimo). Soltanto sulla scrittura avevo le idee chiare. Ero radicale, un talebano. Non m’importava tanto del tema quanto del modo in cui scrivevo i miei racconti. Pur amando diversi maestri – Maupassant, Buzzati, Carver – volevo cercare una strada mia, assolutamente originale. La cura dell’aspetto formale occupava la maggior parte del tempo che dedicavo alla scrittura e alla lettura (la lettura, soprattutto nella fase di apprendistato giovanile, è un aspetto inscindibile dalla scrittura). Per questa ragione l’amore neanche lo consideravo, sapevo che tutto lo sforzo sarebbe andato al “come” e non al “cosa”. Mi ricordo anche di aver pensato che in fondo chi non può parlare di niente parla d’amore, un sentimento che chiunque ha provato o crede di aver provato. Era un tema che in un certo senso mi faceva ribrezzo, perché era il refugium peccatorum di tante mezze calzette ombelicali. A maggior ragione da un punto di vista formale avrei dovuto essere impeccabile, una macchina da guerra. Quando parlo di forma non parlo solo di stile, ma di struttura, ritmica, dinamica. Soltanto qualche tempo dopo mi resi conto che l’amore in fondo è una delle ossessioni della letteratura. Lo è perché rappresenta un problema senza soluzione, è un tema universale prima che sociale. 

M: È soprattutto, guardando a racconti come Fantasma, quaderno o Complicazioni, una variabile incontrollabile dell’essere umano, un binario che spesso può diventare una porta verso l’odio.
R: Faccio sempre fatica a mettere a fuoco questo o quel racconto. Credo che sia una delle prerogative del libro. L’ho pensato proprio come una somma di storie, e non come una raccolta di racconti distinti. Certamente, come ogni vero libro di racconti, ogni pezzo è allo stesso tempo indipendente e dipendente dal resto, ma qui c’è la volontà di costruire un dispositivo modulare, che funziona come un domino composto di tessere molto simili tra di loro, anche se non identiche. Per ottenere questo effetto di uniformità, ho messo in atto delle regole compositive molto rigide. Uso un io narrante asettico, benché interno, che racconta solo i fatti, senza nessun altra riflessione, tant’è vero che alcuni hanno parlato di una paradossale prima persona oggettiva; i personaggi sono decostruiti, non hanno nomi propri (si chiamano con la funzione socio-familiare che ricoprono: marito, moglie, figlio, amante…), e spesso non vengono neppure descritti fisicamente; il mondo narrativo coincide con la casa, è uno spazio circoscritto, chiuso, ed è anche un non-luogo esattamente come una stazione ferroviaria o la sala d’attesa di un dentista: si può descrivere con pochissimi elementi (qualsiasi lettore completa la descrizione con la sua esperienza diretta); ricorro a una lingua strangolata, monocorde, e a una sintassi piana, con un lessico ampio (se voglio descrivere un personaggio che si soffia il naso userò la parola “fazzoletto” e non “kleneex”). L’effetto è una narrazione molto stilizzata, riconoscibile, che esalta le uguaglianze e tenta di annullare le differenze tra un racconto e l’altro, è un procedimento contrario all’iperrealismo che io mi sono sempre divertito a chiamare realismo astratto. L’amore e altre forme d’odio è la mia fase Piet Mondrian.  L’amore c’entra con l’odio? Direi di sì, ma non nel senso che uno è il rovescio dell’altro, o almeno non soltanto, piuttosto sono sentimenti con una matrice comune, una forte dose di passionalità e irrazionalità.

M: Sentimenti che sembrano sempre serpeggiare in una strana commistione tra le mura domestiche, dove vengono covati e quasi “curati” con pazienza, nella schiuma dei giorni tutti uguali. E qui mi è quasi impossibile non pensare che questo libro sembra scritto direttamente nei giorni del lockdown, del confinamento coatto nelle case, nel recinto di ciò che chiamiamo famiglia.
R: È veramente una coincidenza assurda. All’indomani dell’uscita – era il settembre del 2006 – alcuni lettori mi dicevano: «Durante la lettura mi è mancata l’aria». È la stessa cosa che potremmo dire noi, rispetto a questo diabolico 2020: «Dov’è l’aria?». Ci sono due tipi di scrittori, quelli a cui interessa ciò che cambia nel corso del tempo, e quelli a cui interessa ciò che resta uguale nel corso del tempo. Io sono senz’altro della seconda specie. Non m’interessa molto l’attualità, da una prospettiva letteraria. Però m’interessa molto quello che resta uguale, le cose che non cambiano, rispetto agli sconvolgimenti storici. C’è un tratto asfissiante nell’amore che vuole edificare una famiglia, c’è proprio questa sorta di auto-confinamento delle coppie nello spazio assegnato loro dalla società, e quindi sì, L’amore e altre forme d’odio può essere letto anche come una galleria di case, dove tutto il resto, quel che è fuori dal quadro (oltre la soglia di casa), può essere solo intuito e agisce sul testo in modo indiretto. Se vuoi, è la teoria dei 7/8 dell’iceberg di Hemingway. Facciamo qualche esempio. Il finale del racconto Fantasma, quaderno: «Fuori, sistemai la roba sotto la sella della moto. Alcuni aghi di pino erano caduti sulle pedaline. Li tolsi con la suola della scarpa e avvertii come un dolore». Quando il marito/narratore esce di casa, percorre il giardino e raggiunge la moto, il racconto letteralmente finisce. Non può esserci racconto, fuori dai limiti spaziali auto-imposti. La soglia di casa diventa allora una discriminante fondamentale, una frontiera che delimita cosa è narrabile e cosa non lo è, quasi un’istanza ontologica. Il secondo capoverso di Sul bordo (titolo significativo, non ti pare?): «Poco dopo suonò il campanello e andai ad aprire. Fuori dalla porta trovai un uomo sulla quarantina (…) Indugiammo ancora un po’ sulla porta, senza dire una parola. Poi lo feci entrare. Quello fu il primo errore». È sempre un errore che spezza l’equilibrio iniziale e favorisce un movimento narrativo. Personaggi irreprensibili non darebbero corso a nessuna storia. In questo caso l’errore (il primo, quantomeno) consiste proprio nel far oltrepassare all’uomo la soglia di casa. Il narratore/marito commette lo sbaglio che genera il racconto. Tornando all’oggi, ai nostri tempi disgraziati, possiamo consolarci ammettendo che le coppie vivono da sempre in un lockdown. All’inizio sono spinti alla reclusione da un impulso elitario, che a poco a poco diventa la prigionia dell’abitudine.

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Luca Ricci

M: Unico elemento in grado di rompere questa prigionia sarà forse, materialmente o attraverso gli svolazzi dell’immaginazione, la possibilità dell’altro. Lo sguardo desiderante dell’altro (la vicina di casa di Notte di sole), il corpo dell’altro (la commessa di Complicazioni), persino gli oggetti posseduti dall’altro (La veranda, La casa di fronte). La salvezza passerà forse da questa possibilità esterna?
R: Lo scrittore di racconti argentino Ricardo Piglia dice una cosa molto importante: «Il racconto è una narrazione che ne racchiude un’altra. La strategia del racconto è al servizio di tale narrazione cifrata. Come raccontare una storia mentre se ne racconta un’altra? Tale domanda sintetizza i problemi tecnici del racconto». Se la “salvezza” deve essere qualcosa che proviene da fuori, in grado di aprire una breccia nel mondo granitico di questi racconti, allora parlerei del fantastico. L’apertura che m’interessa di più è quella della declinazione del modo. Può un libro che prende le mosse dal minimalismo (quindi dal realismo) avere in sé i germi corruttori e quindi salvifici del fantastico? Può il fantastico essere il cavallo di Troia di questi racconti fortino?

M: Dunque dietro al tuo realismo c’è del fantastico?
R: Faccio anche in questo caso alcuni esempi. Notte di sole è un doppio sogno alla Schnitzler, marito e moglie sognano la stessa cosa, cioè l’adulterio: poco importa se lei a occhi chiusi e lui ad occhi aperti. La casa di fronte si basa sullo stereotipo della casa stregata, ostentando gli elementi horror proprio in vista di un finale che invece fa coincidere il mostro – nello specifico l’uomo nero, una rivisitazione dell’Orco Sabbiolino di E. T. A. Hoffmann – con la moglie dell’io narrante. Complicazione gioca su uno dei topos più cari al fantastico, ovvero quello del doppio. L’io narrante non si trova di fronte a due donne uguali (mi viene in mente Bruges la morta, capolavoro del decadentismo belga), ma è lui stesso che per cercare una via d’uscita alla routine coniugale sdoppia una donna sola. Ogni cosa dovrebbe possedere il suo contravveleno, il suo rovesciamento cifrato, e non soltanto sul piano narrativo. Ma torniamo per un attimo al tema, quel tema da welfare che è l’amore (se non riesci a trovarti un tema, la vita ti darà d’ufficio l’amore): ecco, l’amore ha senso soltanto se viene messo in relazione all’odio. Questa visione dualistica, costruita su opposti (magari apparenti) è uno dei motivi essenziali de L’amore e altre forme d’odio. Dentro un racconto ci devono sempre essere due cose, la prima è ben visibile e la seconda è nascosta bene. Forse anche per questo Nathaniel Hawthorne, uno dei padri spirituali del racconto americano, intitolò una sua celebre raccolta Racconti narrati due volte.

M: E credi che, in quest’ottica degli opposti, la pandemia che sta colpendo il mondo influirà, chissà in quali forme, nelle future forme di narrazione del reale?
R: Influirà senz’altro nella misura in cui il tempo e gli accadimenti hanno sempre influenzato la letteratura, che è una distorsione, che è una trasfigurazione, ma chiaramente prende le mosse dalla cosiddetta realtà. D’altronde che cosa bisognerebbe distorcere o trasfigurare se non la realtà? L’orizzonte della letteratura è mitico-simbolico ma gli serve la realtà, si nutre di realtà. La letteratura, ancora prima di essere una finzione o una menzogna, è un sistema di segni che si configura come un’astrazione, ma per ottenerla serve, appunto, un mondo tangibile, tridimensionale, rilevabile da cui partire. È impossibile invece fare previsioni sul modo in cui questa pandemia e conseguente crisi economica (crisi del modello sociale capitalistico globalista?) cambieranno il punto di vista, sia esterno (collettivo) che interno (l’occhio dello scrittore). Le vie della letteratura sono imperscrutabili, e di fatto c’è un coefficiente abbastanza alto di oscurità nelle opere che scriviamo, anche e forse soprattutto quando sono ispirate ai più ligi principi cartesiani. Diciamo che lo scrittore è costretto tra due tipi di sforzo: il primo è conscio e riguarda la logica, il corretto dominio formale sul proprio materiale narrativo; il secondo è inconscio (ma non meno faticoso) e riguarda tutte quelle scelte istintive che investono parole, frasi e periodi, immagini, significazioni testuali. Lo scrittore deve essere al massimo grado questo tipo di bestia erudita, non sapere niente per far brillare le proprie percezioni, e al contempo sapere tutto per riuscire a organizzarle e gestirle. Il linguaggio è la sintesi perfetta di questi due aspetti, è l’elemento liminare per eccellenza, riguarda la sfera razionale (la scolarizzazione e la lessicografia) e irrazionale (l’infanzia e l’emotività) dello scrittore.

M: Anche L’amore e altre forme d’odio può essere un buon testo per spiegare questa dicotomia da equilibrista?
R: Sì, perché da un lato c’è stato uno studio certosino della forma, dall’altro un approvvigionamento costante da un pozzo molto profondo. I primi beneficiari dei libri devono essere per forza di cose i loro scrittori. Se un libro diventa prevedibile, non solo negli esiti narrativi ma perfino nelle conseguenze sulla realtà (esempio: tutti quei libri scritti con l’intento di volersi fare megafono di un tema specifico, e che puntualmente ci riescono), vuol dire che qualcosa è andato storto. Un libro deve poter creare non solo il proprio futuro ma anche il proprio passato. Qualche giorno fa è successa una cosa che mi ha commosso, direi addirittura sconvolto. Su Facebook mi sono imbattuto in una citazione da un racconto di Ingeborg Bachmann del 1961 intitolato A un passo da Gomorra, che avrebbe potuto benissimo essere uno dei cardini teorici del mio lavoro, cominciato soltanto mezzo secolo dopo. Metto la citazione, e per finire ti dico che i libri fortunati devono produrre luce ma anche ombra: «… il matrimonio è una condizione più forte degli individui che lo contraggono (…) In qualunque modo lo si viva, un matrimonio non può mai essere vissuto liberamente, mai in modo creativo, non tollera innovazioni né cambiamenti, perché contrarre un matrimonio significa accettarne la forma».

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