Poche cose sono difficili come tributare un omaggio al proprio maestro, ma l’allievo capisce che farlo è un «sentimento» inderogabile. E siccome non è chiaro se sia più retorica la retorica, prescritta, appiccicosa e greve, o la falsa antiretorica, a salve, telefonata, nel dubbio si sceglie il passo meno praticato della diffidenza critica verso i dispositivi narcisistico-ombelicali insinuati in ogni occasione di elogio memoriale. Allora, quale paesaggio-Arbasino bisogna arrischiarsi di celebrare e mostrare, oggi che sono passati due anni dalla sua morte, sapendo che i tributi che gli si fanno sembrano invecchiare subito, o assumere connotati pittoreschi? Quello campanaro din-don-dan mediato dalle convenienze, quello collegiale-scintillante degli happy few, dei salottieri-chic frou frou o da “purché se ne parli”, in favore della quantità? E in che modo si dovrebbe descriverlo? Secondo rigore, o riverenza molto composta, o per mezzo di un fighetto rinverdire meraviglie e meriti, tipo arie liriche, o in baldanza finto piaciona da “A. A.ganzissimo!”?
Intanto, esiste almeno una tripartizione degli estimatori: gli arbasinisti, conoscitori del maestro, in mestizia da convegnistica+marketterìe, arcaici per fanfaluche e sussiego, oscillanti fra accademico e polveroso ma convinti d’essere tutt’altro; gli arbasiniani, studiosi-seguaci di Arbasino come «stella polare», praticanti del «culto teorico» e del precetto esoterico, intenti «a bottega», dedicati soprattutto alle Sprezzature, alle Idee, all’Opera; gli arbasinofili, burocrati Pollicini del maestro, ansiosi di cogliere e inventariare briciole eventualmente da lui depositate, a riprova di esser stati nelle sue altere grazie, abitando più il «côté regimental» che quello letterario-intellettuale.
Fa paura l’idea di una canonizzazione astratta di Arbasino in cataloghi celebrativi ed è possibile immaginare la tipica onda di rincoglionimento, un’aria di elegia autunnale soporifera e oppiacea, per la costruzione di un’immagine-Arbasino più vacuo-iconica da conventicola pelosa che polifonico-vitaminica, come invece dovrebbe essere, dunque «d’avanguardia», problematica e critica, per animare approfondimenti e «dibattiti» circa quali autori lo praticano e quali sentieri si stanno effettivamente tracciando (hic et nunc e non tra cento anni) proprio a partire dalla sua idea di letteratura e scrittura.
È difficile parlare oggi di Arbasino, per le troppe tentazioni in cui si può cadere, per i continui miraggi, e tutto a causa del suo mélange, del carattere eversivo e conservatore del suo temperamento estetico e letterario (Raffaele Manica lo descrive perfettamente come “modernista conservatore”) e per i multipli ingaggi critici del suo metodo e procedimento, le trappole del suo humor multi-strato e autoironico. Ma guardando gli errori altrui, si impara. Privilegiare un approccio che non inquini il rigore della testimonianza e che non tenga troppo in considerazione il «gin&tonic» e le tante sensibilità ombelicali, potrà sì scontentare questa oppure quella milizia di interpreti, questa o quella militanza tifosa, ma almeno non disperde la linea puntuta del suo liberissimo sentire e giudicare. Diffidare quindi dal trombonismo e dalla magniloquenza, ma anche dai maglioncini a girocollo che fanno prosa rosa-vanity-Roma-da-bere per ritratti confidenziali facilitati e innocui, arzilli e civettuoli, ad usum canizie incattivite e ingioiellate. Tutte queste cose hanno in comune l’effetto di «impiattare» Arbasino, mostrando (parafrasando Sergio Garufi su Borges) un «Arbasino come si vorrebbe che fosse», cioè disinnescato e privo di spigoli (eccettuati quelli che tornano comodi).
Ma che cosa ha fatto e pensato davvero Arbasino? Un enorme Sistema Formale ed Estetico criptato, che attraversa tutta la sua opera metacritica e metaletteraria. «Sistema» da studiare come somma di congegni coesistenti, raccogliendone l’eredità, «provandola» con i mezzi del presente, mettendola a contatto con «le cose d’oggi», per una integrazione dinamica tra precetti, intenzioni, metodi e inventiva. Con lo scopo di trovare una nuova Forma come nuovo principio costruttivo, nulla di meno di ciò che lui aveva fatto a sua volta con Gadda e gli altri che ammirava e studiava.
La smisurata e complessa ricchezza linguistica e tematica della sua «cassetta degli attrezzi» prosegue a eccitare pluralità di letture e riletture, ma in alcuni di noi anche l’esercizio attivo «a mani sporche» del precetto stilistico e letterario e il bisogno di confrontarsi innanzitutto da lettori-autori con i risultati e con la «linea Arbasino» in modo diretto (come spiegare la noncuranza o dimenticanza degli «addetti ai lavori» nei confronti di questo elemento? Strano, considerando tutte le vistose e appassionate dichiarazioni, da ogni parte, verso tutto ciò che è inedito, alternativo, irregolare, «da scoprire»… Come si conciliano questi afflati con l’evidente ostilità diffusa per il vero «portare avanti»?).
Anche se lui, come Gadda, non si è mai interessato di «fare scuola» («o intrattenere una progenie né di trafficare circondato da piccoli sicofanti per rinfilarne uno in una casa editrice, altri in un grosso giornale»), questo non significa che non ne sia nata una, magari clandestina e non obliterata o certificata da avide solfe in feluca e ciabatte, o che non ci siano filiazioni anche indirette, e che qualcuno non stia già costruendo, per unirsi alla struttura della sua arte (lavoro lento che non si può fare coi riflettori puntati addosso); lavorando entro il solco della tradizione illustre e della Ricerca in cui egli stesso operava, affinché non si perda. Allora, eventuali «nipotini» vanno incoronati tramite birignao «dall’alto», oppure eckermannianamente sono loro stessi ad attestarsi così, perché semplicemente «a bottega» perlomeno da un ventennio? E quanto è importante parlare di questo, occuparci della «vitalità» riferita non solo all’Arbasino leggiucchiato, «ammirato» o «ritratto» e refertato da carrieristi o specialisti plurisecolari, ma all’Arbasino studiato innanzitutto, letto disciplinarmente, e poi sperimentato, vissuto, «scritto», esercitato, immesso nella lingua e «artigianalmente» perseguito: ossia, domandarsi “chi sta lavorando?” e quali conseguenze possano derivare da questo, non limitandosi a registrare compilazioni e generici encomi (ben sapendo che, comme d’habitude, le risposte disinteressate alla domanda non arriveranno «dall’establishment», ma dai luoghi più sfrenati di intelligenza extra-accademici, lontani dai do ut des tatticoni per giochi editoriali già fatti e finiti.
Ricordare nel modo sbagliato può voler dire cancellare le connessioni col presente, favorendo «il racket dei cinquantenni che non hanno più niente da dire, lo dicono male, e lo sanno anche troppo bene»? Ad Arbasino, Gadda a un certo punto appariva «maldifeso contro l’invadenza del sottobosco pseudoculturale romano, finendo per subire i più petulanti, letteralmente, con raccapriccio» e forse ora tocca a lui sembrarlo. Come trovare, si chiederanno i bricconcelli, un marketing minimizzante per questo autore troppo enciclopedico, esoterico, coltissimo? «Ridurre l’autore complesso, signora mia, ridurre!» – rispondono le massaie dalle cucine -, preferibilmente a smorfia del beau vivre, a godimento di Signore Mie e scaligeri! Alleggerir per intrigare e render marginale e innocua la componente critica più seria e «hard-boyled» di un autore d’imponente traccia saggistica maestro del castigat ridendo. Con un colpo al cerchio del gay-friendly e un altro alla botte dell’indugio su irrilevanti questioni biografiche e d’outfit, per lavoretti editoriali tutti ricordini per Sore Cece curiosone e cultori di vecchie pralines, con tanto d’emporio di souvenirs dei bei tempi. Così, per renderlo a portata di disinnesco, che venga fuori (mi raccomando!) il produttore di cartoline per gli amici e specialmente il viveur amante dei viaggi, magari insistendo a proposito di iniziali gran maiuscole del suo citofono romano. Sarà il destino di chi costruisce oggetti complessi diventare un birignao per l’archivistica dei reperti mondani? Alcuni Classici del Novecento che non possono «invitare i lettori», perché difficili, scatenano egocentrismi e tic in chi vorrebbe occuparsene.
Non è nota la piega definitiva o egemone che il futuro darà alla fortuna critica di Arbasino, ma le istantanee preliminari dopo qualche anno dalla sua morte mostrano la voglia di tramandarlo più serenamente e volentieri come reperto vintage, o sponsor di brand per sofisticati conversatori globetrotters. Sarà davvero una manna il bla-bla fritto misto del «ritratto intimissimo», basato su arredamenti e ninnoli, per cui si avvera la disgrazia del passaggio ideologico dall’autore al personaggio, ottimo per un rotocalco qualsiasi? E se la risposta è no, esso avrà eventualmente come causa il fatto che l’invocata «gita a Chiasso» non ha funzionato o che è stata aggirata, preferendo un giretto in coupé? Abbiamo appena cominciato, e già non si sa più dove mettersele le madeleines delle tavolate di contesse e i menu, le rievocazioni pettegole e i repechages meccanici di ciaffi e minuscole storielle circa cosa aveva detto e come, in quel giorno e a quell’ora in quella viuzza o piazza o bistrot o soggiorno («sarà stato al Rosati o al Canova, e mangiando quale pietanza esattamente?»)? Focus strategici sull’omosessualità, grandi interessi e attenzioni verso i bigliettini-ini-ini, i bibelots, le magnifiche rose, annusando stravaganze ed eleganze di vestaglie nell’armadio e curiosità per il collezionista di calzini o foulards («furono comprati da Charvet o a Place Vendôme?»); lode ai salotti e loft e a quello che aveva visto, naturalmente “con i suoi occhi!” («testimone del suo tempo!»), circa l’Italia più remota che tanto ci manca e via dicendo, con i suoi trapassati «protagonisti» mitologici, tra Piazza Navona, via Veneto e Condotti (entusiasmi e precisazioni rarefatte o assenti, però, circa gli aspetti e i profili rilevanti e urgenti, quelli del teorico e costruttore di congegni formali e inaccessibili, con la scusa che non si intendeva fare un saggio?).
Molto probabilmente, come è stato per tanti altri, anche per Arbasino la musica non cambierà, tentandone la gadgettizzazione lungo perimetri di enormi gonfaloni e formulari scolastici, a scopo di istruire le pere cotte, o per intrattenersi in terrazza, ai Parioli. Ma non sarà certo un processo liscio e indisturbato. Altri tenteranno di suonare differentemente, provando a dire cose molte diverse, più vicine alla voce e al colore, all’anatomia, dell’Anonimo Lombardo, alla sua irreperibilità.