Nella storia dell’immaginario collettivo, ci sono luoghi, tempi e civiltà che assumono speciale rilievo, fino a diventare topos, o meglio costellazioni di topoi, sorta di regioni simboliche relativamente stabili, capaci di delineare nel lungo periodo aree individuate della produzione culturale e letteraria. Certamente l’Egitto ha il physique du rôle per rivestire questo ruolo, in nome anzitutto della memoria storica della sua antichissima civiltà, delle piramidi e dei faraoni, ma anche di altre fasi della sua lunghissima storia.
In realtà l’Occidente ha acquisito nel proprio immaginario con ampiezza e profondità la costellazione simbolica “Egitto” e civiltà egiziana, “Terra di Iside”, per riprendere il sintagma che fa da titolo al libro di Dora Marchese, nel corso del XIX secolo, in due fasi ben precise: anzitutto negli immediati dintorni della spedizione napoleonica, con la raccolta di un’impressionante mole di dati (da cui di fatto nasce l’egittologia ) e soprattutto con la decifrazione della scrittura geroglifica ad opera di Jean-François Champollion; ma poi, soprattutto, con l’apertura del canale di Suez e le esplorazioni legate alla ricerca delle sorgenti del Nilo, quindi nell’ultimo trentennio dell’Ottocento, quando l’immagine dell’Egitto è uscita da una conoscenza tutto sommato di nicchia, per raggiungere la cultura di massa e il mainstream, da cui non è mai sparita, come mostrano ancora produzioni recenti quali la miniserie televisiva Tut – Il destino di un Faraone (2015, in onda nel 2016).
Sono passati dunque moltissimi anni e moltissime stagioni culturali, ma ancora mancava un quadro complessivo di questa regione del nostro immaginario. A questa non veniale mancanza Nella terra di Iside (Carocci editore) rimedia largamente, fornendoci un panorama ricco e articolato, sempre equilibrato e persuasivo nel mettere a fuoco rapporti, cronologie, autori e titoli di una fenomenologia oggi un po’ in ombra, ma vivissima per parecchi decenni. Basti pensare, fra le molte altre vicende culturali e letterarie ricostruite da Marchese, a una figura dello spessore di Fausta Cialente (a cui viene dedicato un corposo paragrafo), che ancora nel mirabile Le quattro ragazze Wieselberger (1976, Premio Strega) rievoca con grande intensità il mondo degli espatriati italiani di Alessandria d’Egitto.
La trattazione di Marchese si concentra su sei nuclei storico-tematici portanti. Il primo è dedicato ai decenni inaugurali del mito egiziano, che porta Dall’egittologia all’egittomania, per riprendere il titolo di un altro paragrafo del libro. Poi vengono studiati gli scrittori e viaggiatori degli anni tra fine Ottocento e inizio Novecento, fra cui spiccano, per ragioni ben diverse, i nomi di D’Annunzio e di Salgari, che all’Egitto dedica il romanzo Le figlie dei Faraoni. Un capitolo molto importante va a riscoprire le figure intellettuali femminili legate all’Egitto, specie fra l’inizio del XX secolo e il dopoguerra, con la diaspora slava ad Alessandria (le Aleksandrinke), e personalità di spicco quali Amalia Nizzoli, autrice delle vivaci Memorie sull’Egitto e specialmente sui costumi delle donne orientali e gli harem, testimonianza rarissima, in presa diretta, della vita negli harem, e la già citata Fausta Cialente.
Marchese indaga poi sull’interesse per l’Egitto in area siciliana, riscoprendo un viaggiatore e studioso come il catanese Natale Condorelli, ma anche risalendo a personaggi sospesi tra storia e invenzione, come anzitutto il leggendario conte di Cagliostro, e l’abate maltese Giuseppe Vella, reso celebre da Il consiglio d’Egitto di Sciascia. Una trattazione a parte è riservata a due prestigiosi alessandrini, quali Ungaretti e Marinetti, qui studiati specificamente per i loro reportage egiziani per la «Gazzetta del Popolo» (rispettivamente Quaderno egiziano e Il fascino dell’Egitto), pubblicati anche in volume nei primi anni Trenta. L’ultimo capitolo si concentra infine sull’anarchismo italiano ad Alessandria d’Egitto, dando il dovuto spazio a un personaggio straordinario quale Enrico Pea, ma anche riscoprendo la quasi obliata Leda Rafanelli, singolare poligrafa e narratrice pistoiese, anarchica, profondamente arabizzata da un’esperienza egiziana che la porta a imparare l’arabo e convertirsi all’Islam.
Il volume di Dora Marchese ha molti meriti, a cominciare dalla grande ricchezza d’informazioni e dalla capacità di sintesi. Semmai, a tratti l’ammirevole preoccupazione di esaustività rischia di tenere un po’ le briglie strette all’approfondimento interpretativo. E d’altro canto il lettore non può che essere grato all’autrice per tutto quanto sa darci, ruotando i suoi fari su un territorio comunque molto vasto e per lo più poco illuminato in passato. Più specificamente, mi pare molto importante la riscoperta di figure intellettuali troppo poco ricordate, soprattutto femminili, come accennato sopra. Ma la peculiarità della prospettiva muove Marchese a mettere in luce anche aspetti meno conosciuti di autori noti, cui viene restituito adeguato rilievo.