Per i più assidui lettori di riviste letterarie sul web, la vittoria di Maddalena Fingerle alla XXXIII edizione del Premio Calvino (2020) col romanzo Lingua madre ha rappresentato senza dubbio più una conferma che una sorpresa. Già da un paio d’anni, infatti, i suoi racconti pubblicati su riviste come CrapulaClub, Nazione Indiana e Narrandom avevano cominciato a imporsi all’attenzione di editor e scrittori per la loro originalità e per uno stile impeccabile e immediatamente riconoscibile, nonostante la giovane età dell’autrice (nata a Bolzano nel 1993, e attualmente dottoranda in italianistica a Monaco di Baviera). Per quanto ciò possa apparire paradossale, soprattutto all’interno di un sistema letterario dove in genere le riviste online tendono ad assolvere il ruolo di “palestre” di formazione per futuri esordienti (e le forme brevi, salvo rare eccezioni, a essere concepite come tappe di un percorso verso il romanzo), non credo sia esagerato affermare che la scrittura di Fingerle sia nata sostanzialmente matura, ovvero che già il suo primissimo racconto, vincitore del Premio Zeno nel 2017, presentasse in modo evidente e compiuto le sue principali caratteristiche distintive.
Le galline del signor Razzoli nasce anzitutto da un’ispirazione ludica, fondata sull’idea di trasformare in narrazione un’espressione figurata intesa in senso letterale: «Si dice che il signor Razzoli vada a letto con le galline. Mi sono sempre chiesto come faccia, ma non ho mai avuto il coraggio di chiederglielo. Però vorrei tanto saperlo, così decido di andare a trovarlo». Altrettanto ironico e straniante è l’innesco del suo secondo racconto pubblicato, La voglia di vedermi: «Anastasia muore dalla voglia di vedermi. Me la immagino, agonizzante, un po’ mi dispiace, un po’ mi fa anche piacere però». In La ragazza con i piedi per terra, notevole per il piglio nonsense e lo stravagante ribaltamento del punto di vista, ascoltiamo invece le lamentele di una ragazza dal lunghissimo collo che arriva fino in cielo, determinata a risolvere il problema di avere sempre la testa fra le nuvole e i piedi incollati al suolo (un po’ come la Alice di Lewis Carroll quando si ingigantisce). E proprio come in un’invenzione carrolliana, tra l’altro, il gioco letterario è anche linguistico-enigmistico, perché ogni frase inizia rigorosamente con le ultime due lettere della frase che la precede.
«Resto a fissare le nuvole mentre i piedi, per terra, rimangono ben saldi. Dico agli uccelli che a me non piace volare. Resta giù, allora. Ragazzi, che noia vivere così. Si sta male, potessi almeno scindere, staccare la testa e lasciarla qui, perché no? Non lo sopporto più, questo dolore al collo. Lo sento allungarsi e allungarsi e fa tanto tanto male. Lecco un po’ di cielo e non sa di niente. Te pareva! Vado in giro e sbatto contro un aereo, mi faccio un male allucinante. Temo seriamente di avere un trauma cranico e poi boh, ora sembrerò un mostro. Robe da matti. Ti puoi spostare? chiedo all’airone che non ha nessuna intenzione di spostarsi.»
Anche a prescindere da questo espediente, la concatenazione di frasi è una caratteristica tipica della scrittura di Fingerle, che il più delle volte riflette il decorso di pensieri ossessivi. Più che di un flusso di coscienza si tratta proprio di una catena di idee consolidate, espressione di una rielaborazione mentale martellante che in alcuni racconti raggiunge vette virtuosistiche davvero sorprendenti (su tutti l’allucinatorio crescendo di Fai che, costruito su ripetizioni e scaramanzie numerologiche). E come il linguaggio figurato, i giochi di parole e un’attenta ricerca stilistica sul ritmo, i pensieri ossessivi di un protagonista che si esprime in prima persona e quasi sempre al presente si ritrovano in Lingua madre, recentemente pubblicato da Italo Svevo nella collana “Incursioni” a cura di Dario De Cristofaro, dove il rilievo della dimensione linguistica emerge fin dal titolo e dalle citazioni elencate sulla copertina, con gli anagrammi “parlanti” dei nomi dei personaggi principali.
Paolo Prescher, alias “Parole sporche”, è un ragazzo che vive a Bolzano in una famiglia italiana, e già negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza comincia a sviluppare una peculiare ossessione per la pulizia del linguaggio, in buona parte alimentata dal contesto socioculturale e famigliare in cui cresce. Da un lato, Paolo è insofferente nei confronti dell’ipocrisia di una città che si definisce bilingue soltanto a parole, ma che nei fatti è attraversata da pregiudizi e divisioni sociali che il linguaggio eufemistico del “politicamente corretto” maschera in modo subdolo: «Le parole sono tendenzialmente pulite se dicono quello che devono dire senza fare la doppia faccia, come negro e tedesco. Negro e tedesco sono più pulite di persona di colore e sudtirolese di madrelingua tedesca». Dall’altro, il ragazzo patisce le contraddizioni di una famiglia dove squilibri e tensioni sono all’ordine del giorno, e nella quale l’esasperante verbosità ed emotività della madre Giuliana, spesso spalleggiata dalla figlia Luisa, si contrappone alla completa afasia del padre Biagio, una figura evanescente che Paolo sente affine, ma la cui unica forma di comunicazione esplicita consiste nello scrivere etichette segnaletiche da incollare su qualsiasi oggetto: «All’entrata, in bella vista, c’è scritto pavimento. Così la gente che entra a casa nostra pensa subito: che gabbia di matti».
Oltre al sintomo di un profondo disagio, l’idiosincrasia di Paolo per la pulizia del linguaggio rimanda al tentativo di reinventare mediante un proprio alfabeto personale l’unione di parole e cose, o meglio una mescolanza di parole e colori, idee ed emozioni, che nel suo ambiente famigliare e in società sono invece tenute rigorosamente distinte. Così, se la madre ama dipingere ma ordina gli oggetti in ordine alfabetico, il padre predilige al contrario la scrittura e l’ordine cromatico, senza che tra i due si intraveda mai la possibilità di un accordo. Coi suoi strilli e le sue urla lei sporca al figlio le parole, ed è su questo aspetto che si concentra maggiormente il fastidio del narratore; ma d’altro canto è soprattutto dal mutismo del padre che discende l’idealizzazione di una lingua pura, talmente ripulita dalle scorie dell’uso da rischiare di tramutarsi nel più fitto silenzio, o in alternativa in un gergo iper-specialistico, sulla scia della folle impresa di uno zio che tempo prima, come racconta Paolo in una delle pochissime parentesi aperte sul passato, «si era messo a scrivere un dizionario del dialetto che si parla in un piccolo paese del Trentino, in una zona che inizia dal bar della Giustina, così lo chiamano là, e finisce sei metri più avanti».
Dobbiamo leggere nelle parole di Paolo le catene di un pensiero che si ripiega su sé stesso in un eterno rimuginare, come pare indicare tra l’altro l’assenza di discorsi diretti introdotti da segni grafici? La grande abilità con cui Fingerle dà voce al suo protagonista e risonanza alle numerose ambivalenze del racconto, del resto, fa sì che la lingua letteraria, in un momento cruciale della storia, rappresenti anche un prezioso mezzo di evasione dalla gabbia famigliare. Dopo un grave lutto, al termine del primo dei tre atti che compongono il romanzo (Bolzano – Berlino – Bolzano), Paolo impara da solo sui libri il tedesco che in molti anni di scuola non era riuscito ad assimilare, smette di parlare italiano e suggella poi il rifiuto della lingua materna e della città natale trasferendosi a Berlino, dove in una biblioteca, nella scrittura di Bernhard e Kraus, approfondisce la conoscenza di una lingua diversa, in grado di sfamarlo e saziarlo. È l’annuncio di una nuova vita, in una città cosmopolita lontana dall’asfittico contesto bolzanino, e il preludio all’incontro con l’affascinante Mira, studentessa italiana che come lui ha cercato all’estero la propria dimensione, e in cui Paolo riconosce un dono che gli appare quasi miracoloso: «Parla pulito, Mira, e pulisce quando parla».
Accanto a Mira cambia lo sguardo di Paolo sul mondo, mentre il linguaggio si stempera e si distende, favorendo anche la scoperta di inediti punti di vista sul passato e sulla città natale a cui il ragazzo farà ritorno nell’ultimo atto, dove emerge con grande efficacia espressionistica la ricerca sperimentale dell’autrice. La lingua di Fingerle è metamorfica come l’acqua che in modo discreto ma sempre più insistente ricorre in vari episodi del romanzo, tra docce ossessive, fontane antiche e passeggiate lungo il fiume: un potente simbolo di purificazione e rigenerazione, ma anche l’intuizione di un flusso potenzialmente in grado di sciogliere la catena di parole che àncora Paolo alla realtà, e che non a caso, forse, si affaccia sulla soglia del racconto sotto forma di lacrime, in un incipit che al termine del romanzo sarà impossibile non richiamare alla mente, cristallino e straniante come un enigma che il linguaggio può solo lambire: «È da quando sono nato che mia madre piange. Piange perché la mia prima parola è parola. Piange perché dico parola e non mamma. Piange perché papà non parla nemmeno quando dico parola e non mamma».
In copertina: Howard Hodgkin, Bedroom, 1960