Le città di carta è un libro per persone che vivono in punta di piedi. Per chi aspetta prima di parlare mentre rimaneggia le frasi nella mente; chi riconosce in un suono ovattato l’eco di un significato arcano. C’è chi ha bisogno di vivere nelle cose piccole e in quelle trova l’universo: gestire più universi insieme sarebbe impossibile. Penso che Dominique Fortier sia una di queste persone.
Nel suo primo romanzo pubblicato in Italia (da Alter Ego edizioni con la traduzione di Camilla Diez) Fortier segna sulle pagine le linee abbozzate di due esistenze: la propria e quella di Emily Dickinson.
I capitoli sono brevi e spesso l’inchiostro lascia spazio alla pagina bianca, quasi a dire che quello che le parole vogliono evocare abbia più peso delle parole stesse. Fortier racconta e immagina momenti della vita di Dickinson attingendo dalla biografia, dalle testimonianze degli scritti, ma anche dalla propria fantasia. Affiora sulla pagina bianca un episodio, spesso un solo istante di vita della poetessa americana, che rimane sospeso come una goccia d’olio nell’acqua. Una pagina dopo l’altra gli istanti si sommano e tracciano il percorso di un’esistenza rivolta all’interiorità.
Emily abita il proprio corpo con pienezza e questo diventa il prisma della materia che la circonda. Il giardino della casa di famiglia è l’universo più ricco con cui Dickinson entra in comunicazione e rimane l’unico ente estraneo che violerà la solitudine della sua stanza negli anni che vi passerà dentro. Ma ogni cosa che incontra è motivo di meraviglia e interesse, assorbito da Emily bambina, poi ragazza e poi donna per trovare finalmente riflesso e corpo nella poesia.
«Emily non è nascosta, non è nemmeno reclusa. È nel cuore delle cose, nel punto più profondo di se stessa raccolta, posata in equilibrio tra le api del giardino e le due Orse, la maggiore e la minore, che si accendono nel cielo al calare della notte, dritta come lo stilo di una meridiana.»
Lo spazio della poetessa di Amherst, come è noto, si è ridotto nel tempo alla sua sola stanza e la critica letteraria ha discusso molto negli anni sul significato e sul ruolo di questa scelta. Per la scrittrice e accademica Paola Loreto la rinuncia al mondo esterno di Dickinson è una modalità d’espressione del desiderio, l’autentico motore della conoscenza, che per Dickinson è estatica. Loreto tratteggia in La contemplazione dell’emblema. La poesia eretica di Emily Dickinson (Unicopli, 1999) una poetessa mistica per cui il linguaggio è «strumento dell’estasi» e la cui grande forza speculativa porta ad aprire percorsi polisemici grazie all’uso della metafora.
Fortier però, nonostante sia anch’essa studiosa di letteratura, sceglie di non interpretare né spiegare. Sembra spinta dal desiderio di rendere omaggio a una vita di cui subisce la fascinazione e il mistero. Potremmo parlare di Le città di carta come di una dichiarazione d’amore, un atto votivo e infine anche come di una ricerca identitaria.
Negli interstizi della vita di Dickinson, in luoghi a lei vicini ma in un tempo molto distante, compaiono momenti della vita dell’autrice. Quando Fortier scrive di sé si pone nel solco dello sguardo di Emily. Le due donne sono unite da un bisogno di finitezza che prende corpo nelle città di carta, uno spazio artificiale e immaginario, uno spazio piccolo e maneggiabile che significa tutto l’universo. La poetessa ha così le forme di un alter ego dell’autrice, a cui attribuire la scelta di vivere nella devozione religiosa delle cose minuscole, dell’eco magica degli oggetti e della natura. Scrive a proposito della reclusione di Dickinson:
«lo ripeto, ci si dovrebbe stupire che non siano di più gli scrittori che si rinchiudono tranquillamente in casa per scrivere. Non è piuttosto il teatrino della vita quotidiana, con la sua sfilza di obblighi e futilità, a essere sovrumano?»
Ne Le città di carta Emily è sola, un’aliena capitata in un mondo con cui non condivide altro che l’incomprensione reciproca. Fortier le è devota, la tiene per mano e fa riecheggiare la sua esistenza in questo romanzo. Straniera, come Emily, è anche la sua poesia, che non smette di riflettere i misteri del mondo.
«La poesia è sempre una lingua straniera. Sulle prime non si sa nulla. Poi si sa che non si sa – e siamo a metà strada.
In seguito le parole e le immagini tornano in continuazione, le ritroviamo come sogni mezzi dimenticati il cui significato continua a sfuggirci. Sono loro a insegnarci cosa vogliono dire. Sono loro ad avvicinarci al lettore, prudenti, per addomesticarlo. Ben presto percorriamo le poesie come una foresta eternamente misteriosa ma la cui penombra è trafitta da sentieri e raggi di luce. Ben presto ci mettiamo ad abitare questa foresta, ne riconosciamo gli uccelli e le creature, gli stagni neri e le grandi querce. Ben presto la foresta cresce dentro di noi.»
Immagine copertina: Andrew Wyeth, Vento dal mare