Uno scrittore è una persona seduta davanti a un tavolo con lo sguardo attentamente fisso su un oggetto. Si siede, si concentra intensamente, vede dapprima i contorni, poi i gesti, poi toni che vibrano. Poi prende un foglio di carta e cerca di riprodurre ciò che vede. Spesso non è facile, perché ciò che deve riprodurre non è un modello statico, ma la vita umana. Spesso, scriviamo nel buio. Non esiste scrittore senza questa profonda visione della vita. Per Mary Flannery O’Connor, non esiste affatto scrittore senza una visione, e per lo scrittore di narrativa «Non credere in niente equivale a non vedere niente». Così anch’io, se mi concentro a guardare Flannery, un’immagine sfumata mi appare davanti. Dapprima vedo una geniale scrittrice, la regina della narrativa sudista del novecento americano. Una donna profondamente religiosa – che quando si manifesta il peccato non dubita di Dio, ma di sé stessa. Una donna malata, inafferrabile, una vergine di ferro. Una reclusa, che ha dovuto combattere con la morte e la malattia – il lupus – per tutta la vita. Una donna morta a soli 39 anni. Forse in lei c’è anche una certa dose di cattiveria. La donna mai stata amata che si converte in Parca e taglia la vita degli uomini. Vedo nello sfondo la madre di questa donna. E dentro questa donna c’è una bambina, con lo sguardo adorante verso suo padre; la vedo chiudersi nel dolore della sua morte e cambiare per sempre. È una bambina solitaria, arguta, ironica che non risparmia nessuno. È una bambina che non crescerà mai.
Harold Bloom, inserendola nella settima zefirah, Nezah, la definirebbe come la vittoria di Dio, come l’eterna resistenza che non può essere sconfitta.
Una donna che abitava in qualche strana regione dove lo spirito tende verso un Dio invisibile, nel suo caso un Dio scuro, duro, un Dio il quale decreta che tutti i piaceri del mondo gli sono odiosi. Nella sofferenza è difficile godere delle cose; si può fare ironia su di esse, ma sono due cose diverse.
Eppure rimane sempre qualcosa, come una luce accecante, una deformazione del mio stesso scetticismo o della mia stessa fede, che mi impedisce di riprodurla esattamente, tanto mi è cara l’immagine. C’è una parte della sua anima che non potrò mai conoscere perché non ho potuto vederla o parlarle, e forse nemmeno questo sarebbe servito.
Flannery scrive in uno stato d’incoscienza, che tutti conosciamo, quello in cui l’inconscio lavora attivamente mentre i piani superiori della coscienza sonnecchiano. Le sue parole, “momenti di visione”, descrivono esattamente quei brani stupefacenti per bellezza e forza che possiamo trovare in ognuno dei suoi libri. Con un’improvvisa intensificazione di vigore, che noi non possiamo prevedere, né lei – a quanto si direbbe – controllare, una scena isolata si separa dal resto. Vediamo, come se esistessero isolati e per tutta l’eternità i tre colpi di pistola al petto della signora Wesley, i brividi di Asbury, le azalee di Calhoun, il ghigno del Balordo che ci dice alla fin fine che «Non esiste il piacere vero nella vita» – nemmeno nella cattiveria; la gamba di legno di Joy, col suo orgoglio umiliato. Flannery si lascia andare al suo umorismo, nell’aspetto più libero e più ricco, metà poesia e metà furberia. In lei vive una riserva di saggezza comune; un fondo di vita perpetua. Ha quasi sempre vissuto come una reclusa, ma tutto ciò di cui si privava non era un sacrificio, era il viaggio, la sofferenza che le era necessaria per raggiungere la grazia.
È giudizio nostro se dobbiamo aspettarci sempre la trasparenza d’intenti, la consapevolezza, o se ciò che un’artista crea sfugga anche a lui stesso, alle strutture intrinseche che egli ordisce, e se gli oscuri recessi della mente non rispondano stancamente al controllo delle intenzioni, mescolandosi come un crogiolo con ciò che manca loro nel cuore recondito e che con piccole bollicine risale in superficie. Alcuni, come Henry James o Flaubert, sono in grado di fare il migliore impiego possibile del complesso dei loro talenti, e anche di controllare il loro genio nell’atto della creazione. Sono sempre consapevoli, e nulla li prende di sorpresa. Gli scrittori inconsapevoli sembrano a un tratto e contro le loro intenzioni essere trascinati e sollevati da un’ondata, e quando l’onda si estingue, loro non sanno spiegare cosa sia successo e perché. «Chi non ha la forza di uccidere la realtà, non ha la forza di crearla».
Flannery ha detto «Tutte le mie storie riguardando l’azione della grazia su un personaggio non troppo disposto ad assecondarla, ma la maggior parte delle persone pensa che si tratti di storie dure, disperate, brutali». E perché mai le cose dovrebbero contraddirsi?
Nella sua visione «ci fu una caduta, c’è stata una redenzione e ci sarà un giudizio». «La redenzione crea un debito che va pagato. La redenzione cambia tutto. Chiunque, attraverso la sofferenza, prende parte alla redenzione», «la grazia è un dono che Dio elargisce gratuitamente, ma per mettersi in condizione di riceverlo bisogna imparare a rinunciare a sé stessi».
Flannery riesce a lasciare nell’oscurità la vita quotidiana che trascorre senza strepiti e forma la trama, il canovaccio sul quale unicamente si può disegnare l’azione straordinaria o l’evento trascendente.
Quante volte ha creduto di trovare, di possedere l’Indicibile per aver semplicemente osato sprofondare in sé stessa e poi in Dio. Quante volte ha creduto di ottenere il sacro scambio. E a dire il vero, quando le sembra sia in gioco l’ultimo avanzo della sua esistenza perduta, quando si rianima la sua fierezza, allora scopre in sé l’onnipotenza della disperazione, parla da ispirata e alle volte sente persino spuntarle negli occhi una lacrima di felicità.
L’uomo del Novecento si è allontanato da Dio, e dalla verità dell’Incarnazione, dalla fede, e come dice Ernst Junger «Quando la fede diminuisce, rimane qualcosa di diverso dal nulla e dalle sue conseguenze. Resta il luogo già occupato dalla fede, resta la battigia, e su di essa il tramonto, e tuttavia lì accanto vi è l’inesauribile ricchezza dell’abisso. A rimanere non è il nulla. È il vuoto, con la sua potenza di risucchio».
E visto che Dio si presuppone che reclami delle vittime, possiamo essere noi stessi, i lettori, coloro che è necessario sacrificare per ottenere un compenso. È mettendo alla gogna tutti noi che si guadagnerà la salvezza della sua anima. Per placare la sua collera si moltiplicano i sacrifici. D’altronde la religione, per le persone semplici, è il miglior modo per sentirsi moralmente superiori a tutti gli altri. La religione indurisce il cuore. «Dio aiutami nella mia mancanza di amore», non immagino preghiera più dolorosa, quella di un’anima che sente la sua finitezza, l’impossibilità di accesso all’amore, la sua inadeguatezza e aridità, il freddo sguardo con cui considera il mondo, condannata per sempre a essere una bambina malata e infelice, limitata dal suo stesso Credo. Nel momento in cui ha visto Dio, non ha potuto volere null’altro che Dio. Flannery allude costantemente all’esistenza misterica che chiama in causa la trascendenza ma in un modo del tutto nuovo, innominabile ed inimmaginabile; a ciò che ci fa urlare come Giobbe davanti a Dio, contro Dio e con Dio. La sua fuga dal mondo non deve (non può) essere scambiata per semplice volontà a dimenticare, a non voler vedere o a ricordare l’abisso, ma è superamento dello stesso nell’approdo ad una condizione che preveda di scegliere senza più le costrizioni di qualsivoglia assoggettamento che sia autentico annichilimento. Flannery vuole essere viva, e più soffre, più intensamente riesce a credere. Il suo non è semplice scetticismo, è una ricerca, una ricerca a tastoni, ma una ricerca che non implica che ci si fermi ad una luce quando la si è vista. Non fa dimostrazioni, o semplici esposizioni; tutto è domanda, invocazione, e anche e-vocazione, dibattito interiore di un’anima che sente quasi la missione di maturare l’universo o addirittura di rigenerarlo. Ci si può chiedere però, se nella misura in cui rimarrà prigioniera in questo modo di una concezione autocentrica del dramma personale e della vita spirituale, ossessionata dall’immagine della salvezza o perdizione personale, non rischierà per ciò stesso di porsi al di fuori del cristianesimo, inteso nella sua verità eterna.
Le stampelle su cui è costretta Flannery a camminare, si trasformano in qualcosa, qualcosa di significativo, da cui dipenderà molto: tutta la sua forza, tutta la sua volontà vi confluiranno per tramutarle in una potenza, in un essere che forse sarà in grado di aiutarla, e a cui si aggrapperà con una fede selvaggia. Possiamo immaginare la sua volontà, l’angoscia, il sussulto disperato delle sue mani convulse che premono le stampelle contro la spina dorsale, quasi per inglobarle a quel corpo inerme, dove cova l’impulso a mille danze. Creare le ha permesso di non arrendersi passivamente al dolore. Dal momento che lei può solo scrivere, pensa che la sua malattia sia quasi una fortuna. «Il succo ovviamente sta nella rassegnazione alla sofferenza, che è uno dei frutti dello Spirito Santo» e «il peggio è soffrire per la ragione sbagliata, per la perdita sbagliata». Perché soffrire? Dobbiamo preoccuparci di perdere la vita, o di perdere l’anima?
È interessante notare che il Lupus eritematoso sistemico è una malattia autoimmune, una malattia in cui non si riconosce più il nemico reale, in cui ogni cosa viene aggredita, ogni parte di sé autoannientata, senza risparmio.
O’Connor mette i suoi personaggi di fronte a una questione ultima: essere se stessi, o essere Gesù, seguire Gesù. Essere se stessi è l’altra opportunità in contrasto con il confinamento religioso.
Queste sono tutte le conseguenze spirituali delle azioni quotidiane. L’universo non è punitivo, ma causale, e le azioni hanno delle conseguenze, e più fingerai di non vederle più diventerai un microcosmo a sé esposto a innumerevoli sofferenze. Negli scacchi c’è la regola del tocca-e-muovi: una volta che hai mosso un pezzo, anche se cambierai idea, dovrai muovere lo stesso.
Flannery, in Diario di preghiera, prega Dio di mettere da parte il suo Io, di rinunciare a sé stessa e di poter diventare strumento in mano sua, lo strumento tramite cui Dio scrive le Sue storie, perché è nella narrazione e non nei principi che Dio si rivela. Gli chiede di renderla pulita, trasparente, acuta, di essere in grado di liberare coloro che ama dalle loro sofferenze. Gli chiede di perdonarla. Prega di potere aiutare tutti. Crede di non avere nulla finché Dio stesso non le darà qualcosa. Prega di renderla una brava scrittrice.
Non capiamo mai veramente se la fede metta al riparo da ogni colpo di maglio iterato nel tempo coloro che la possiedono. Davvero Flannery non desidera un’altra vita? Davvero essere lo strumento di Dio la pacifica da tutte le prove che deve sostenere? La fede ci porta lontano o ci lega al passato? Appena un uomo ha fede, la forza di quella fede deve bandire ogni alternativa. Flannery ha l’ossessione dell’artista, le leggi dell’arte sono per lei più forti delle leggi della fede. Darebbe via tutto, se ne avesse sentita la vera vocazione, ma così non è: lei vuole solo essere una grande scrittrice. Le nobili ragioni messianiche di cui si avvolge forse sono il tentativo di cancellare la sua più grande paura: che sia mediocre, e che preghi in realtà per sé stessa, per poter riuscire a fare bene la sola cosa che la sua malattia le permette di fare e di cui ha bisogno disperatamente. Una vita incaricata, una missione, una crociata, sono più gratificanti di qualsiasi grazia ricevuta, o perlomeno sono compenetranti. La dissociazione nelle sue preghiere, la foga: perché non può rendere merito a sé stessa del genio letterario che è. Il rapporto con Dio è il rapporto più intimo che abbia mai potuto avere. Il solo che lei vuole volere, e non solo quando lei pensa a lui, ma che le viva dentro costantemente come un cancro, e il morire di quel cancro sarà vissuto come compimento della sua vita. Il solo a cui lei ceda il potere, il solo la cui parola può essere talmente vera, salvifica, penetrante e sconvolgente e che meriti di essere da lei scritta. Lei vuole scrivere Dio.
Nell’idealismo il soggetto diventa anima di un’inspiegabile servitù – nel materialismo anima di un’inspiegabile libertà. Calandosi pienamente nella volontà di Dio, Flannery diventa Dio, un Dio violento e punitivo. Non c’è nessuno in questo mondo radice del male al sicuro dalla sua ironia, che meriti un po’ della sua dolcezza. Lei li comprende a fondo e per questo non può perdonarli. È un universo senza perdono, e siamo noi gli sciocchi ad aspettarci un finale diverso. Flannery ha scelto così completamente la religione da non voler compiere nessun’altra scelta che non sia servire per essa. È tramite il nulla, passando per il nulla, che Flannery arriva a Dio. Tramite il disvalore, lo sfregio, l’umiliazione. È una sorta di religione nichilista.
In ciò che scrive non c’è traccia di amore, ha una comprensione di qualcosa completamente diverso dall’amore del teismo. Esso ha una valenza nella maggior parte dei casi usato in senso negativo. Significa innanzitutto un dipendere, un bloccarsi privo di senso, un estremo aderire. Esso non si realizza a partire da noi stessi ma è un nostro ricevere meramente passivo proveniente da Dio. Non sa cosa sia l’amore di un uomo, e lo giudica severamente. Non ha esperito, né pregato l’amore dei suoi simili. È avulsa da queste questioni terrene, se per volontà o per predestinazione non è chiaro. La sua vita si è ridotta in pietra «Io ho un cuore d’acciaio». La sua è una vita affrancata da tutti i legami e, entro la nascita e la morte, non è da essi vincolati. Il suo stesso destino non le cura. Va felice sulla terra, e nel mezzo della differenziazione, è resa libera da tutte le differenze, e esistendo nello spazio e nel tempo non ne è però limitata. Vivere in questo modo significa condurre una vita veramente libera, serena in sé, attiva senza impedimenti. Il suo fine è scrivere, e questo le è concesso fare. Ogni suo desiderio verte e si aggira su questo e sul «là dove andrei, se potessi andare, quello che sarei, se potessi essere». Flannery (non) ama nella prospettiva della negazione di sé. È qualcosa di molto diverso dal pensiero di Weil, che lei ha letto con freddezza, perché Weil spera per noi. Non ci separa da sé, e ciò che non è per noi non può essere neppure per sé: l’agape alla radice della speranza. L’amore serve a cercare il nostro essere, è «strumento di consunzione, fuoco che depura e conoscenza». L’amore è la cosa incalcolabile, quella che può distruggere ogni calcolo. E poiché Flannery non lo conosce e in lei non c’è vero vuoto, viene giudicato da una coscienza dove non c’è posto per lui, e quindi respinto.
Fin dai tempi antichi viene espresso coi versi «Colpire dall’interno e contemporaneamente beccare all’esterno». Il pulcino prende a beccare e distruggere l’uovo dall’interno, mentre la gallina becca lo stesso uovo dall’esterno. L’uovo si rompe grazie all’azione congiunta dei due. Così Flannery inserendo un misterico ineffabile in quel che scrive e servendosi di una forma e un ritmo esemplari, ferma attenzione all’ordine, alla proporzione al nitore di ciò che crea, arriva a rompere i nostri gusci con una doppia azione. Noi siamo essere-sé originari, come i pulcini, e la gallina è solo un aiuto affinché si affermi il nostro essere in quanto tale. Noi diventiamo così autonomi, ciò che esce in noi, e nei suoi racconti rappresenta l’autentico e l’originario. Una volta uscito, agisce completamente da solo. La sua «non è un tipo di distorsione che distrugge, è un tipo di distorsione che rivela, o che dovrebbe rivelare».
Il male di noi uomini, la morte in vita di noi uomini, per la volontà morale è la situazione del dilemma assoluto in cui non si può andare né avanti né indietro. Per la logica è la contraddizione assoluta. Per il sentire è la sofferenza assoluta. Questa morte non accade separatamente alla volontà al pensiero o al sentire, ma ci colpisce tutti e tre nello stesso tempo come se fossero una cosa sola. Questa è la negazione della vita stessa. E «non c’è sofferenza più grande di quella causata dai dubbi in coloro che vogliono credere. So che tormento è, ma posso solo vederlo, per lo meno in me, come il processo con cui la fede si approfondisce». Abbiamo la nostra parte di responsabilità dell’imperfezione del nostro essere. Non si può, senza fariseismo, constatare l’altrui peccato e dichiararcene immuni; se il male si trova in loro, devo affermare che si trova anche in me. Non possiamo neppure sperare di condividere con gli altri le esperienze che conducono alla salvezza, se non siamo consapevoli di essere in comunione con gli altri nel peccato. È il materialismo di cui è intriso il mondo tanto immondo da convincerci, per contrasto, di quelli che perseguita e della maestà del loro ideale. Sono i nemici di Dio che ci riconducono a Dio. E ci diventa insostenibile questo amorfismo davanti al dolore degli altri, questo non prendervi parte e ignorarlo; quasi gustarlo di straforo o, a volte, biasimarlo. Un mondo senza giustizia ci riempie di orrore. È più difficile ignorare una “chiamata” personale che un lamento generico. Avere qualcuno che si rivolge a te in persona, che ti supplica e ti tormenta col suo dolore è più difficile che ascoltare qualcuno che laggiù borbotta tra sé, e si interroga. In particolar modo il materialista non ha diritto né possibilità di lamentarsi, di rivolgersi a “qualcuno”. Non ha nessuno oltre sé. I confini del divino sono sconosciuti, dimenticati. La più drammatica constatazione di Flannery O’Connor, che in qualche modo chiede aiuto al mondo intero, è il silenzio di Dio di fronte al male e alla morte innocente. Durante il “secolo breve”, più che di giustificare Dio, l’uomo cercava di trovare una giustificazione a sé stesso, tanto da essere alla ricerca non più di una teodicea ma di una “antropo-dicea”: è il silenzio dell’uomo il vero silenzio che va condannato e quindi giustificato. È l’uomo che Flannery si appresta a distruggere. Non è Dio che si rivela nelle ingiustizie, ma l’uomo. È l’uomo che riconosceremo “dal suo immortale silenzio”. «Tutto, in ultima istanza è salvo o è perso». Eppure, per poter essere salvati, è necessario perdersi.
Leggere Flannery è imparare a trattare col mistero. Si entra in un immenso territorio che c’avvolge e ci sommerge a volte nell’angoscia o nella disperazione. A tentoni dobbiamo farci i conti perché ciò che lei muove in noi non può essere eluso né rimosso. È semplicemente la nostra propria vita.
Un essere vale esattamente nella misura in cui, con il suo esempio e la sua opera, avrà sviluppato e rinnovato le nostre ragioni d’amare. A monito di tutto ciò che abbiamo perduto e a monito di tutto ciò che potremmo invece fare, Flannery O’Connor ce ne ha date tante, e profonde.
Immagini di copertina: Flannery O’Connor, Flickr