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L’Argentina con le zanne di Mariana Enríquez

Tra gotico e folklore, le sue storie raccontano l’orrore della dittatura

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, nel pieno di quel boom economico che interessa gran parte dell’Europa, in America Latina è un altro tipo di boom ad attirare l’attenzione. La produzione letteraria del Sudamerica comincia a distaccarsi nel panorama internazionale, dopo secoli di una letteratura multiforme come la storia del continente: precolombiana, coloniale; e ancora romantica, naturalista e modernista. A partire dalla seconda metà del Novecento la letteratura latinoamericana si schiarisce la voce e domina la scena.

Dopo un secolo, quello dell’Ottocento, con l’orecchio teso verso l’Europa, pur cercando di plasmare un’identità nazionale e continentale – i temi trattati erano, tra gli altri, soprattutto povertà, santeria, colonialismo e schiavitù – il Novecento vede l’esplosione del realismo magico, genere che vanta tra i suoi esponenti più famosi nomi come Gabriel Garcia Márquez, Julio Cortázar e Isabel Allende. L’eredità del realismo magico – storie non lineari, distorsioni temporali, stravolgimento delle strutture classiche del romanzo, oltre all’elemento sovrannaturale – pesa ancora oggi sulla scena latinoamericana odierna, che pure non dimentica mai chi è la vera protagonista della letteratura del continente: la politica.

L’autoritarismo, le dittature, i disastri sociali, i crimini ambientali; temi che non ci lasciano mai quando mettiamo piede nelle pagine del Sudamerica. Gli autori di oggi, come quelli del Novecento, riprendono i cardini del realismo magico e ci mostrano la politica attuale, mostri moderni e colpi di stato.

Tra queste voci contemporanee spicca Mariana Enríquez. Autrice e giornalista argentina, con La nostra parte di notte (Marsilio, traduzione di Fabio Cremonesi) è stata vincitrice del prestigioso premio Herralde de Novela (2019), una delle più importanti premiazioni in lingua spagnola del mondo. Alcuni elementi gotici nell’opera di Enríquez si rifanno al gotico di stampo britannico: misteri di famiglia, mansioni tetre e minacciose, financo infestate, religiosità esasperata e soffocante. La massiccia presenza della dittatura e della natura ostile della selva, o delle metropoli soffocanti e decadenti, ci riporta in Sudamerica.

Marian Enríquez, La nostra parte di notte

Sei parti dividono la narrazione e ci accompagnano nella storia, su piani temporali diversi, di questo romanzo fluviale – più di seicento pagine –, sei parti che presentano caratteristiche proprie e voci differenti. La storia è quella dell’Ordine, una setta para-religiosa costituita da potenti, milionari, proprietari terrieri che cercano la vita eterna attraverso l’Oscurità, una divinità che divora i corpi e si manifesta attraverso i medium. Il più potente tra loro, Juan Peterson, tenta in tutti i modi di evitare che il figlioletto Gaspar subisca il suo stesso destino. Il bambino ha già dato prova di aver ereditato i poteri del padre, ma Juan è determinato a fuggire con lui e a nascondergli l’esistenza dell’Ordine.

I membri della setta sono i veri antagonisti, ricchi e influenti signorotti che detengono il controllo del Paese e non hanno remore a collaborare con i militari pur di mantenerlo, che usano i desaparecidos come sacrifici umani, che sembrano aver dato le spalle all’etica e alla coscienza, valori gettati nella grande Oscurità che invocano attraverso il corpo del protagonista, reso loro schiavo fin da bambino. L’Ordine è reale nella storia e nella vita dei personaggi, ma è anche un’allegoria di come funziona il potere, di come i potenti agiscono: nell’ombra, nell’Oscurità, impuniti e intoccabili. La lotta di classe è un’altra presenza fissa nel romanzo, ed è anche attraverso i racconti dei lavoratori che si sfogano sugli abusi di potere e sulla noncuranza dei signori dei campi, che la loro lotta si interseca a quella contro la dittatura.

I demoni invocati sono spaventosi, e fanno il paio con i demoni della vita reale, la società corrotta dei militari e degli anni successivi al loro dominio, dove si cerca di raccogliere i pezzi e ricostruire tutto. Una delicatezza inaspettata, che si fa largo nella ruvidezza della narrazione, introduce gli elementi queer e un focus intenso su corpi e malattia – la storia arriva a toccare gli anni Ottanta e la devastante epidemia di Aids. Sullo sfondo, case abbandonate e maledette, bambine con un braccio solo, spiriti, la Londra psichedelica degli anni Sessanta, uno strano universo nascosto, inquietante e capovolto.

Anche nella raccolta di racconti Le cose che abbiamo perso nel fuoco (Marsilio, traduzione sempre di Fabio Cremonesi), Mariana Enríquez gioca con il gotico e il vero e proprio horror – quando non addirittura splatter – e il folklore argentino. Piccole storie, perle macabre: ambientate tra gli anni Ottanta e i primi Duemila, alcune rimangono nello spazio liminale del non detto, alla sola supposizione dell’esistenza di un universo paranormale che sfugge al nostro controllo, altre sono più crude e grottesche, altre ancora ci sbattono in faccia il sangue e la pazzia, la ferocia delle entità che l’essere umano non è in grado di catalogare.

Mariana Enríquez, Le cose che abbiamo perso nel fuoco

Le ambientazioni sono quasi antropomorfe, anch’esse personaggi delle storie: nel primo racconto, Il bambino sporco, c’è una Buenos Aires con i suoi quartieri di tossici e streghe brasiliane; in Ragnatela seguiamo le due protagoniste tra la provincia di Misiones, al Nord, immersa nell’afa, negli insetti e nel grande fiume immobile, e la città di Asunción, nel Paraguay, dove tocchiamo con mano la miseria nelle strade frutto della dittatura di Stroessner; in L’Hostería ci muoviamo in un paesino rurale e malinconico, tensione saffica tra due adolescenti e rimasugli della violenza militare in luoghi insospettabili. E nel racconto che dà il titolo alla raccolta torniamo a Buenos Aires, dove un’ondata crescente di violenza di genere spinge le donne e le ragazze della città a escogitare uno scioccante contrattacco.

Un’Argentina con le zanne, come la scrittura di Mariana Enríquez, che non a caso è stata ribattezzata dal quotidiano argentino La Nación «la rockstar della letteratura». La sua scrittura conturbante, dalla prosa chiara e mai troppo barocca, dà alla luce immagini taglienti come le note di quel rock che l’autrice richiama nelle sue opere, la musica legata al suo mondo notturno e spettrale, che ci trascina in un universo dai tratti onirici che però sappiamo essere reale, perché, come impara a sue spese una delle protagoniste dei racconti, «nei sogni non si sente dolore».


Immagine di copertina di (c) Kaloian/ Ministerio de Cultura de la Nación
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