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L’anarchia della risata. Sull’autobiografia di Charlie Chaplin

Non perché ne abbia curato la prefazione. Anzi no: proprio per questo. Perché per anni ho insistito che venisse pubblicata una nuova edizione de La mia autobiografia di Charlie Chaplin, secondo me tra i migliori cento romanzi di sempre. Proprio perché vedevo nelle librerie o nei remainder soggiacere vecchie edizioni nei reparti “cinema” o “autobiografie”.
É mia ferma intenzione, invece, farlo conoscere a un pubblico di lettori sempre maggiore: perché La mia autobiografia è un romanzo di un uomo e di un artista che ha rivoluzionato non solo l’arte di fare cinema, ma l’arte. Pur essendo un lettore onnivoro per lavoro ma soprattutto per passione, quell’edizione Mondadori del 1964 e le successive pubblicate in economica mi sembravano un abito troppo stretto per il genio di Chaplin.
Soprattutto perché Chaplin è stato un artista capace di andare davvero contro tutto e tutti: le sue non sono solo “comiche” ma sono atti d’accusa all’allora nascente capitalismo che avrebbe inghiottito uomini e coscienze; i suoi film, diretti e musicati da lui, hanno anticipato i kolossal di Hollywood ma nel Chaplin di queste pagine c’è sempre l’amarezza di non essere stato capito. Chaplin non solo voleva far sorridere ma umanizzare nella propria singolarità ogni individuo: quello che, in seguito, i sociologi avrebbero definito “uomo-massa”, vittima dell’industria dei consumi.

Charlie Chaplin

Più che un’autobiografia è un romanzo uscito dal cilindro di un genio come Chaplin, un uomo geniale e tormentato, un attore e regista che ha sempre inseguito la fama sino a che la fama non ha inseguito lui. Chaplin è una contraddizione vivente soltanto perché è ampio, come avrebbe detto Walt Whitman se lo avesse conosciuto. Chaplin non è stato un idealista: è stato e sarà per sempre un ideale. Un attore che ha fatto ridere generazioni e generazioni, ma che in ogni suo film o comica ha saputo far scoprire qualcosa di nuovo. Come in questo romanzo, che andrebbe adottato come testo scolastico, letto ad alta voce per le strade, portato nei cinema e nei teatri e nelle piazze e nei mercati e nelle periferie e nelle prigioni. Perché Chaplin è stato il primo a intuire veramente come dietro ad un sorriso ci sia sempre uno strappo di vita: un lembo di pelle ricucita come la tela di un ragno, come a far male non siano le croci ma i chiodi.

Chaplin è stato un minimalista ante-litteram, capace di sintetizzare in una frase ciò che gli scrittori non solo a lui contemporanei non riescono a spiegare in un capitolo. Come «volevo cambiare il mondo e l’ho fatto soltanto ridere»: è questa la frase che più colpisce di Chaplin. Perché in ogni suo film, come in questo libro, ha sempre combattuto un mondo di moralità senza morale, un mondo dove tutto continua a progredire ma nessuno progredisce veramente. Per questo venne accusato di comunismo e fu costretto ad abbandonare gli Stati Uniti per ritornare prima in Inghilterra e poi per ritirarsi in Svizzera. Un’immagine che vale tutta la sua poetica di anarchico razionalista («Dove c’è anarchia non è detto che non ci sia razionalità»): è tutto in un fotogramma. Una folla di emigranti, come lui stesso era stato essendo nato a Londra, arrivano stremati e felici in America: ad accoglierli è la Statua della Libertà così vicina così lontana, a un miglio nautico, come un sogno idealizzato che valeva una traversata oceanica di giorni e giorni. Gli emigranti guardano quella Statua così imponente e la fiaccola della libertà che raccoglie tutte le loro speranze racchiuse in valigie di una vita, e nello stesso istante i poliziotti americani li costringono con i manganelli a non sporgersi dai parapetti. Oggi diremmo che è ordine pubblico: allora Chaplin intuì quella che sarebbe diventata la peggiore dittatura: la democrazia. Quella democrazia capace di trasformare le catene in museruole mentali, di sostituire la censura con l’autocensura, e dietro l’apparente libertà del voto quel nuovo capitalismo che abbiamo imparato a conoscere. Chaplin l’aveva intuito decenni prima di noi.

Charlie Chaplin
Charlie Chaplin
The immigrant, 1917

Ciò non di meno ha combattuto anche il nazismo, basti pensare a Il Grande Dittatore, parodia di Adolf Hitler che riuscì a rendere ridicolo, facendoci capire che la cosa peggiore che può farti il nemico è renderti uguale a lui. Così, tra le pagine che leggerete, c’è un episodio che lo vede protagonista nella New York anni ’40: «Era strano sentire giovani e abili nazisti arringare da piccoli pulpiti in mogano capannelli di passanti lungo la Quinta Avenue. Un giovanotto, tipico rampollo della nuova generazione newyorkese, mi chiese con aria benevola perché fossi tanto antinazista: “Perché loro sono antiuomo” risposi. “Ah, già” disse lui, come se facesse un’improvvisa scoperta. “Ma lei è ebreo, nevvero?” “Non occorre essere ebreo per essere antinazista” risposi. “Basta essere un normale essere umano con un briciolo di dignità”. E la discussione finì lì».

Un uomo nato nella più estrema povertà, che lo segnerà per sempre: ogni Natale della sua infanzia lo trascorse nella solitudine di un orfanotrofio. Quando morì in vecchiaia era l’alba del 25 dicembre, come se il suo addio arrivasse dove tutto era cominciato. Perché all’apice del successo scrive:

«Non è patetico, non è terribile che tutta questa gente mi circondi gridando “Dio ti benedica, Charlie!” e che voglia toccarmi il cappotto, e ridere o persino piangere? Li ho visti farlo, quando riescono a toccarmi la mano. E perché? Perché? Semplicemente perché li ho rallegrati. Dio, Tommy, che lurido mondo è questo, che permette alla gente di passare una vita tanto abietta che se qualcuno li fa ridere vogliono inginocchiarsi e toccargli il cappotto come fosse Gesù Cristo che li risuscita. Ecco un commento sulla vita. Ecco un bel mondo in cui vivere. Quando la folla mi circonda così – per quanto personalmente mi gratifichi – spiritualmente mi fa male, perché so cosa c’è dietro. Uno squallore, una bruttezza, e una disperazione tale che solo perché qualcuno li fa ridere e li aiuta a dimenticare, chiedono a Dio di benedirlo.»

Sempre tra queste pagine potrete leggere che «Una volta un grande attore un giorno mi domandò: “Ora che siamo arrivati, Charlie, che cosa abbiamo ottenuto?” “Arrivati dove?” risposi».
Questo è stato Charlie Chaplin, un uomo solitario, che ha pagato sin da bambino l’isolamento ma che è riuscito a crearsi una propria dimensione di libertà da se stesso.

«È indubbio che chi ha raggiunto il successo vive in un mondo diverso; pur essendo intellettualmente un parvenu, le mie opinioni erano tenute in seria considerazione. Quando incontravo qualcuno, scoprivo sempre visi sorridenti ed espressioni improntate alla massima gentilezza. Tutti volevano stringere amicizia con me e partecipare ai miei problemi quasi fossero dei parenti. Certo la cosa mi lusingava, ma la mia natura non ama una simile intimità. Mi piacciono gli amici come la musica: quando sono in vena. Questa libertà, comunque, doveva costarmi lunghi periodi di solitudine.»

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