«Avere una tradizione è meno che nulla. È soltanto cercandola che si può viverla.» Lo scrive Cesare Pavese nella prefazione alla sua traduzione di Moby Dick, ed è qui che sta l’innesco, e il senso, del lavoro che Enrico Rotelli – su impulso, confida, della casa editrice – ha dato alle stampe per La nave di Teseo. L’innesco, prima di tutto, perché è Pavese a consegnare a una giovanissima Fernanda Pivano i suoi primi quattro testi di letteratura americana, per spiegare all’allieva cosa avessero, di così dirompente, le parole d’oltreoceano. Ed è Pivano, più di mezzo secolo più tardi, ad aprire a un giovane neolaureato di Schio la porta degli Stati Uniti, quelli sognati, vissuti, respirati e compresi come può solo chi ama. Un ragazzo che di Nanda – per lui più che per tutti – è diventato la voce. Così come poi di Valentina Cortese, Carla Fracci (sono suoi i libri da cui sono tratti i due recenti docufilm Diva! e Carla) e Gillo Dorfles, tra gli altri.
Una vocazione, quella al dare voce, in cui Rotelli ha trovato una propria – personale e valida, anche quando meno visibile – misura. Ma dare voce significa, prima di tutto farsi ascolto. Così, lasciati temporaneamente i panni del memorialista – quando il cerchio si chiude – non può che tornare là dove tutto è cominciato. A quegli Stati Uniti che sono ancora il punto dell’orizzonte a cui tendere lo sguardo, anche quando l’incoscienza della giovinezza lascia spazio alla lucidità dell’età adulta, all’acume di identificare e portare alla luce – e in luce – le contraddizioni. Ma senza la vanità di prendere possesso di una parola, lasciandola piuttosto a chi, invece, la vive. Un filo, quest’ultimo, che tiene insieme tutto il libro. Sono nate così decine di interviste ad autori statunitensi – la gran parte ospitate su “La Lettura” del Corriere della Sera – le cui punte di diamante sono raccolte in questo L’America è un esperimento.
Da Yiyun Li a Michael Chabon, da Elif Batuman a Nickolas Butler, e poi, tra gli altri, Keith Gessen, Michael Cunningham, Zachary Mason, Ayelet Waldman, Jill Eisenstadt, Garrard Conley, Tracy K. Smith, e Richard Powers. Andando a cercare queste ventitrè voci il lavoro di Rotelli riesce a dare un’ipotesi di forma a quella tradizione cui Pavese faceva riferimento. Ed emerge che, se tradizione esiste, è nella sua capacità di riconoscere, e tentare, il mutamento. Un paradosso? Forse, o piuttosto, come dice Jeffrey Eugenides: «Una scommessa, in qualsiasi modo la si guardi. Che potrebbe condurre a grandi scoperte, o fallire.» Un esperimento, appunto. Di cui la scelta dell’architettura del libro, che segue la linea cronologica degli incontri, tutti svoltisi tra il 2015 e il 2020, rende evidente l’evoluzione.
Una parabola di crescita personale – per l’autore – e disgregazione collettiva per gli Stati Uniti per come gli interpellati li restituiscono. Il testo di Rotelli, quindi, è un prezioso – e quasi scientifico – carotaggio delle stratificazioni di quel terreno fertile e tellurico che sono Stati Uniti tra il termine della presidenza Obama e la presidenza Trump. Un affresco vivido e arricchente proprio per l’assenza di filtri delle aspirazioni, i timori, le aspettative, i desideri. Della temperatura emotiva e sociale – e delle sue oscillazioni tra la Grande Mela e San Francisco – di un Paese in cui – suggerisce Rotelli – agli scrittori non si chiede il ruolo (tipicamente europeo) dell’opinionista. Eppure dalle loro parole emerge esatta la capacità – intimamente propria della scrittura e di chi la pratica – di farsi acuto interprete del proprio tempo, avvertendone le vibrazioni come sapevano fare i nativi. E il riferimento non è casuale perché – tra i meriti di Rotelli, c’è anche quello di porsi con perspicuità il tema dell’inclusività della narrazione. Di riflettere criticamente sull’immagine che – nell’insieme – il mosaico di voci restituisce, e sulle assenze. E lo fa, forse tra i primi in Italia, riconoscendone i significati senza tentennamenti, e al contempo liberando il dibattito dallo scontro ideologico.
Come si accennava, sono gli autori a prendere parola – perché parola e spazio gli si fa prendere, disponendosi ad arricchirsi nell’ascolto – e a riconoscere a più riprese la varietà intrinseca a un Paese – e a un continente – definito dalla migrazione, dalla ricerca di un altrove. Questo non è vero soltanto per chi lo porta scritto nell’ascendenza, da R.O. Kwon a Rajesh Parameswaran, fin dal centenario Ferlinghetti, ma è distintivo e consustanziale a tutti gli interpellati. La voce di Stefan Merril Block, che ammette: «Sono cresciuto senza storia, la mia identità culturale mi ha reso distante dal passato.» potrebbe essere quella di tutti. Una condizione di “orfanità dal passato” che pare alimentare l’esigenza di costruire una identità che passa attraverso il rinnegamento dei padri, ma ancor di più attraverso lo studio delle sollecitazioni nuove, il confronto, la messa in discussione, la messa alla prova. Che «come tutti gli esperimenti ci aiuta a dare forza o a contraddire un’idea. Così lo è la sua letteratura, così lo sono i suoi scrittori.» Nel suo disporsi garbato nel fare domande – «Poche, perché per me ascoltare è sempre stato più importante.», Rotelli riesce con perizia nel compito arduo di raccontare gli Stati Uniti dall’interno. Lo fa plasticamente, usando la loro lingua, precisa, lineare e senza orpelli, e la loro postura, in cui a intessersi con le riflessioni sulla scrittura e sul passo del racconto, è una quotidianità fatta di musica e cucina. È multiforme anche la materia di cui si compongono le riflessioni, non già per volontà di evasione, ma perché di vissuto sono fatte tutte le forme di appartenenza. In queste pagine c’è, senz’altro, anche il gusto di scoprire gli autori in un tempo precedente a quello che ce li ha, probabilmente, consegnati: da un Andrew Sean Greer fiorentino che svela il primo scheletro della trama di quello che sarà Pulitzer Less, e Maaza Mengiste che apre squarci sul colonialismo italiano prima di portarlo nella shortlist del Booker Prize con il Re Ombra (in Italia pubblicato da Einaudi).
In duecento pagine, le interviste di Rotelli raccolgono, però, soprattutto un preziosissimo bignami di quanto gli possa chiedere chi pensa gli Stati Uniti. Ci sono i mostri sacri, da Erica Jong a Ferlinghetti, c’è chi ha segnato un’epoca per poi diventare altro, come Jay McInerney, che alle mille luci di New York oggi preferisce l’enologia, ai podcast e alle idee controcorrente di Bret Easton Ellis fino alle riviste di Dave Eggers. Ci sono, soprattutto, quelle che a molti probabilmente suonano voci sorprendenti. E non manca quasi mai, da parte dell’intervistatore, la richiesta di altri nomi, altre finestre, altre voci amate. Torna inevitabilmente alla mente Nanda, con i cui articoli, nel 2010, è stata compilata in Libero chi legge la lista dei titoli da leggere per comprendere davvero gli Stati Uniti. L’America è un esperimento non può, per definizione, essere un catalogo esaustivo delle voci da ascoltare per giungere allo stesso obiettivo. Ma è una accurata, appassionata e irrinunciabile playlist per sentirne suonare la voce, esattamente com’è, tra promesse non mantenute, scantonamenti e prospettive inesplorate. Non si può non partire da qui, se si vuole davvero aprirci un dialogo.
credits: Roby Schirer