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La solitudine senza scampo dell’artista secondo Marco Vetrugno

In “Apoteosi di un allucinato”, primo romanzo del poeta e drammaturgo salentino, la dolorosa alienazione dell’artista diventa una ribellione a un sistema straziante, dove non c’è spazio per le rassicurazioni

L’invisibilità non è un dono né una condanna. È solo il risultato di un calcolo fatto da qualcun altro. Questo sembra dirci Marco Vetrugno nel suo romanzo d’esordio Apoteosi di un allucinato (QED, 2024), trascinandoci in un universo narrativo tanto intricato quanto disturbante, dove il confine tra la realtà quotidiana e l’incubo interiore si dissolve in una danza sconvolta e sconvolgente di minacciose ombre e luci accecanti. Fin dalle prime pagine, la scrittura di Vetrugno si lascia percepire come un’impresa di coraggio, una sfida in cui l’autore si pone come un’imponente presenza, a richiamare il mito di Atlante, muovendosi sempre con una postura diritta e autentica, anche al costo di risultare respingente attraverso le proprie scelte linguistiche ben lontane dal rassicurante appiattimento editoriale a cui spesso ci troviamo di fronte.

Il protagonista, definito «alieno in una città di subumani», incarna la condizione dell’emarginato che urla in un silenzio perpetuo e assordante; un essere la cui esistenza si consuma nell’oscurità di un mondo incapace di ascoltare il suo disperato appello. «Tutti i suoi sforzi per essere ascoltato si rivelarono vani»: un’eco di una solitudine radicale che richiama, nella sua essenza, le atmosfere dense e claustrofobiche della Trilogia di Thomas (Einaudi, 2024) di Vitaliano Trevisan, in cui la solitudine diventa l’unico compagno fedele dell’individuo abbandonato. La memoria dei «pensieri e delle sconfitte degli ultimi, di chi fu abbandonato, dei reietti che come fantasmi abitano e dormono nelle strade delle vostre città» che compare nel romanzo di Vetrugno si fa monito e testimonianza di un’esistenza in bilico, così come in Undici (Sellerio, 2025) di Andrej Longo, dove l’essere ultimo è lo specchio di una società che ha dimenticato di ascoltare se stessa.

La scrittura di Vetrugno si radica in una tradizione letteraria eterogenea: discendente dalla penna tagliente che ha definito il modo di raccontare la crisi dell’individuo moderno di Toma e Bernhard, con il senso dell’assurdo portato in vita in un’asfittica scena teatrale di Beckett, ma arricchita da richiami che si spingono verso il realismo crudo di Burger, la lucidità emotiva di Morselli e l’approccio decostruzionista di Fosse. L’autore compone un scenario narrativo in cui la quotidianità si trasforma in un incubo vivido. Il risultato è una realtà non solo deformata, simile alle atmosfere oniriche di Tiziano Sclavi, ma le rende palpabili, destabilizzando il lettore e invitandolo a riconoscere la fragilità di un mondo che ha perso ogni riferimento stabile: conoscenza e cultura, infatti, pur rappresentando un patrimonio prezioso, non bastano a contrastare la disperazione dell’essere umano. Come in Volevamo magia (Nottetempo, 2025) di Matteo Quaglia – in cui la ricchezza culturale si scontra con l’inevitabile solitudine esistenziale – ogni riferimento, ogni omaggio al passato, si trasforma in una sorta di vanità, incapace di salvare il protagonista dalla sua condanna all’incomunicabilità, perché l’arte, per quanto sublime, non può sostituirsi alla necessità di vivere la verità, anche quando questa si rivela troppo dura da accettare.

Il romanzo è attraversato da una critica feroce alla società contemporanea come un’incrinatura profonda che minaccia di disfare ogni costruzione rassicurante. Vetrugno dipinge un ulteriore incubo: un mondo in cui l’arte in generale sembra prigioniera della superficialità di «un miscuglio di gente che con l’arte non aveva nulla a che fare. Non conoscendo l’urgenza e non cercando mai la verità, questi personaggi mentivano in modo continuo e spudorato che non conosce urgenza né ricerca della verità» e quindi capace di tradire ogni autentico ideale dove il gesto artistico non è più conseguenza di una ricerca interiore, ma semplice spettacolo, esercizio di autocelebrazione. Si applaude per dovere, si partecipa senza ascoltare. La verità è sacrificata all’ossessione di apparire, di esserci nel modo giusto, senza mai correre il rischio di dire qualcosa di scomodo. A questo mondo di finzione e di facciata, l’autore contrappone una figura di scrittore che sembra necessariamente destinata al fallimento e che descrive come «un reduce di tutte le morti quotidiane», un uomo privato, ossessionato, che conosce la propria condizione e non bluffa. Una visione che richiama quanto scrive Trevisan, citato nell’articolo Le fiere feroci dell’editoria apparso su Il Tascabile, quando afferma che «scrivere è una cosa seria, lo spettacolo non c’entra niente» o, ancora, «forse semplicemente il pubblico applaude perché è presente; intendo non tanto presente a se stesso, ma all’evento». L’applauso, il consenso, la presenza a tutti i costi, non sono che segnali di una degenerazione culturale che trasforma l’arte in intrattenimento, che rende ogni opera un prodotto ben confezionato e facilmente digeribile. L’editoria stessa è ormai dominata da “fiere feroci”, come le definisce l’articolo, dove l’unico valore riconosciuto è quello della visibilità, della capacità di stare nel mercato più che nel mondo. In questo senso, il romanzo si pone in aperta opposizione alla dinamica descritta. Qui non c’è nessuna mano tesa al lettore, nessun compiacimento, nessun bisogno di rassicurare. L’autore si muove su una linea sottile, rifiutando il compromesso, scegliendo di stare dalla parte di chi non si può salvare, perché non vuole salvare nulla. E così il romanzo stesso diventa un atto di resistenza, un’ultima, ostinata dichiarazione di esistenza in un sistema che ha già deciso chi deve restare invisibile. Ecco, allora, che le parole «io sono stanco, per dio, lo sono tremendamente, e no, non posso ricominciare come se nulla fosse» sono il grido disperato di un’anima che ha conosciuto troppe morti quotidiane, un grido che diventa simbolo della condizione umana contemporanea, fatta di solitudine, emarginazione e di una disperata ricerca di senso: Apoteosi di un allucinato si configura così come un’opera ambiziosa e provocatoria, un inno alla consapevolezza di sé che, nonostante la durezza della realtà, e alla ricerca di una bellezza crudele e autentica nel caos del quotidiano. Vetrugno si afferma, con questo esordio, come una voce originale e coraggiosa nel panorama contemporaneo, capace di trasformare il dolore e l’alienazione in una sublime, perversa, apoteosi dell’anima.

Apoteosi di un allucinato si configura così come un’opera ambiziosa e provocatoria, un inno alla consapevolezza di sé che, nonostante la durezza della realtà, e alla ricerca di una bellezza crudele e autentica nel caos del quotidiano. Vetrugno si afferma, con questo esordio, come una voce originale e coraggiosa nel panorama contemporaneo, capace di trasformare il dolore e l’alienazione in una sublime, perversa, apoteosi dell’anima.

Copertina: “Occhio allucinato”, in Paolacroft.wordpress
Nell’articolo: copertina del volume e ritratto dell’autore


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