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La scrittura illusionistica di Michele Mari

O della letteratura come luogo-rifugio in tempi difficili

Gianluigi Simonetti, nel recensire l’ultimo libro di Michele Mari, Locus desperatus, uscito ad aprile per Einaudi, ne incrocia le sorti con i recentissimi lavori narrativi di Walter Siti, Alessandro Piperno, Domenico Starnone, e, in aggiunga tardiva, con la Casa del mago di Emanuele Trevi. Questa la motivazione: «Il collezionista angosciato di Locus desperatus somiglia in qualcosa ai professori in disarmo protagonisti rispettivamente di I figli sono finiti (di Walter Siti) e Aria di famiglia (di Alessandro Piperno); e allo scrittore in pensione di Il vecchio al mare (di Domenico Starnone). Mentre risulta complementare all’intellettuale che nella Casa del mago (di Emanuele Trevi) entra – invece di uscirne – nella casa paterna». Si tratta di una miracolosa congiunzione e, a dire il vero, non senza una sua plausibilità, per come si possano incrociare – in un arco di tempo ridottissimo – destini umani e letterari così diversi. Ma decisamente si tratta di un quadro che merita una riflessione, se pensiamo allo sfondo ideale dal quale sembrano provenire questi racconti. Essi hanno in comune la figura residuale dell’intellettuale-scrittore-professore in lotta contro l’attuale deriva culturale, cui non basta un flebile tentativo di resistenza all’inevitabile, per venirne a capo. Atti resistenziali occultati in trame silenziose, perplesse, indirette. Quindi di non resistenza si tratta. Sottoscriviamo a questo punto il detto di Adorno: «I borghesi sopravvivono a sé stessi come spettri annunciatori di sventura».

Locus desperatus

Michele Mari ci ha abituati a superbe prove narrative; e quest’ultima non si smentisce. Se volevasi dimostrare l’irriducibilità dello scrivere alle sue determinazioni ambientali e alle occasionali imbeccate della cronaca, qui troviamo pane per i nostri denti. Pur non raggiungendo gli estremi della dissoluzione locutoria di Gadda (la «scrittura spastica», parole di Contini), e senza arrendersi agli «improvvisi» di Arbasino (la spiritosaggine su Breton, «agitare molto e servire ghiacciato!», di Fratelli d’Italia), molti riscontri testuali, trovati sulla pagina, ci dicono che Mari sta precipitando verso questo orizzonte letterario che si corrompe in corso d’opera, mentre affronta l’ultimo, disperato tentativo di trarsi in salvo con i trasalimenti assoluti dello stile e della lingua ‘ricercata’. Vediamone in ordine alcune di queste predilezioni irrinunciabili: il virtuosismo stilistico, l’uso meditato di barocchismi e costrutti desueti, il primato della funzione grammaticale e lessicale dello scrivere, nonché i sussulti citazionistici ed etimologici. Anche quest’ultimo libro è un esercizio perfettamente riuscito di stile ardimentoso e artificioso, che finisce per risolversi in un meticoloso quaderno di appunti d’autore. L’aspetto prodigioso del libro consiste proprio nella volontà di ‘punire’ il lettore anche avvertito, costringendolo alla glossa ripetuta, pagina dopo pagina, alla stupefazione per la bulimia citazionistica che sfocia in iperdulia autopunitiva. Che Michele Mari abbia deciso per l’appunto di punire i suoi lettori, oltre ogni ragionevole ammissibilità, è un fatto su cui difficilmente si possono nutrire dubbi. Parliamoci chiaro, Michele Mari non si è risparmiato e non ci risparmia lo strazio suo e nostro che proviamo ogni qualvolta la pagina ben fatta fa gridare al genio creativo, all’opera rifinita di cesello. Si tratta di un estremo sussulto di gioia, trattenuta però dalla consapevolezza, almeno per noi, che questa letteratura che necessita di commento, e che non può essere emendata, avrà larghi consensi e aperte manifestazioni di giubilo tra i soli lettori esperti. Scherzi dell’ironia.

Il compianto Luca Serianni attribuiva a Michele Mari «l’iperletterarietà» come sua «condizione strutturale». Ne aveva fondati motivi e ce li ha spiegati con dovizia di particolari. Se accanto al linguaggio d’uso, per la verità mai accolto del tutto da Mari per la sua implausibilità in letteratura, si fa ostentazione di una dizione a metà strada tra classicismo ed espressionismo; se la raffinatezza del dettato narrativo ha il compito di emendare la presenza di gergalismi e attenuare le studiate alterazioni del turpiloquio, «in uno scrittore come Mari – prosegue Serianni – non c’è spazio per il dialogo inteso come scambio mimetico di battute tra i personaggi … si può notare che, anche quando un dialogo muove dalla realtà, presto il ‘demone della letterarietà’ dello scrittore lo indirizza verso l’alto». Il «piacere della letteratura» prevale su tutto il resto, o per lo meno rende illeggibile quel che dovrebbe potersi trovare in un testo letterario. Il desiderio di compiacere, e di autocompiacersi, nasconde abilmente quello che dovrebbe essere il primo scopo della letteratura: la rappresentazione simbolica della realtà.

Andrea Cortellessa, in occasione della Giornata di studio per Michele Mari (2019), a proposito di Leggenda privata, ha insistito anch’egli sull’aspetto iperletterario della scrittura di Mari: «Diversi incunaboli importanti del genere iconotesto, specie all’intersezione cruciale di questo con la vocazione autobiografica, mostrano questo stesso carattere ‘archeologico’ o, per dirla appunto col lessico di Mari, ‘filologico’ (superflua forse l’avvertenza che è una filologia paradossale quella esercitata su materiali di esclusiva pertinenza ‘privata’: rivelandosi dunque quella che è, a tutti gli effetti, inverificabile ‘leggenda’)». Spunto interessante – sulla tendenza di molta letteratura recente, in primis quella di Mari – di risolvere lo spazio aperto, pubblico, della narrazione, in lessico ‘privato’, individuale, nella disperata ricerca di un dire ‘negativo’ che si fa criptico, cerimonioso e arcaicizzante. Come quando si calpestano le navate delle grandi chiese, rapiti dal sapere che quei pavimenti ricchi di iscrizioni tombali, quelle colonne attraversate dalle luci delle vetrate dai colori smerigliati, quegli altari ricoperti di immagini in gloria sono appena la superficie di luoghi inaccessibili, che nascondono cripte spoglie e rudimentali, ammantate dal buio dei suoi recessi e dall’umidità dei sotterranei, cariche di suggestioni e di significati ancora da svelare. Ciò che risulta apparentemente chiaro e plausibile, viene restituito alla primitività degli inizi, come se si ricominciasse ogni volta da capo, e si tornasse agli albori dei geroglifici murali. Questa predilezione del regressus, oltre ad avere degli evidenti connotati psicanalitici, denota uno scostamento, uno scartamento rispetto alla normale comunicazione, per ridiventare pura ‘archeologia’, filologia, commentario da cella o biblioteca monastica. Per tornare a Gianluigi Simonetti, non è del tutto errato parlare di «nobile intrattenimento» per una scrittura (quella di Mari) che si distingue dalla prevalente letteratura di consumo senza che si riesca a chiarire quanto di feticistico contenga al suo interno. Ecco alcuni esempi linguistici tratti dal libro, a dimostrazione di come i fatti narrati in Locus desperatus si rendono a volte volutamente inintelligibili. Siamo appena alle prime pagine: «File policrome di tesserine di legno disposte verticalmente sul pavimento, con tanto di incroci e ponticelli» (puro edonismo longhiano), «e io fissavo stregato quell’oscena tumescenza, ancora più oscena pensandovi le cose mie lí dentro prigioni in imago, come in pegno» (prestito evidente da Hoffmann, Poe o Kafka), «a casa, mi disposi alla minzione: minsi» (memoria letteraria a fini parodici), e via discorrendo, in una gara altalenante di preziosismi ipnotici, di sberleffi manierati, di collezionismo feticista e rebus enigmistici. In tema di virtù e di vizi non sappiamo davvero da che parte far pendere la bilancia. Gli orpelli vanno bene quando si espongono per farne pubblica ammenda; ma quando vengono utilizzati per puro decoro sono un brutto guaio.

In questa ultima prova narrativa, lo scrittore italiano che più di chiunque altro rifiuta la lingua d’uso a scopo letterario, non smentisce le attese. Anzi, questa intenzione estetica è portata alle estreme conseguenze, come se avesse avvertito il bisogno di ricapitolare l’estro di cui è capace lo scrittore che attraversa con fiera disinvoltura i confini insicuri dei generi letterari. L’alienazione del quotidiano è risolta con la rassegna antiquaria della sua foltissima biblioteca, affinché tutto venga pensato come nostalgia della nobilitazione del proprio Sé. E spiace l’annotazione critica di Cortellessa sulla «trasgressione adulta» che motiva la ricerca letteraria di Mari, quando si tratta – al contrario – di dipanare il dilemma irrisolto della sua genesi. Il lettore provvisto di buona educazione non potrà fingere l’imbarazzo per l’uso frequente delle alterazioni linguistiche a scopo ludico. Gli eccessi della lingua mettono a rischio la salute del lettore già intaccata dalla tabe letteraria. Gli accessori della storia narrata diventano elementi necessari e irrinunciabili, in un continuo rimescolamento di ruoli e funzioni. Eccoci al dunque: il protagonista trova un giorno sulla sua porta disegnata una croce. Uno strano personaggio lo avverte che quel segno è l’anticamera di uno spossessamento, di un sequestro, della casa e degli oggetti che vi sono contenuti. Poi si scoprirà che il locus desperatus è un passo testuale cui i filologi non sono venuti a capo, che verrà contrassegnato con una «croce della disperazione», un segno premonitore negativo. Inizio del dramma, per la verità tutto filosofico, se a difendere la propria identità, la propria essenza vitale, Mari mette in campo i suoi binomi dicotomici: tana/labirinto, mostri/sostituti, identità/sdoppiamento, autentico/inautentico. Non sappiamo se Mari avesse in serbo questo passaggio dei Minima moralia di Adorno sullo «spossessamento» della casa nell’epoca attuale (la coincidenza è notevole): «La casa è tramontata. Le distruzioni delle città europee, come i campi di lavoro e di concentramento, non fanno che eseguire e completare ciò che lo sviluppo immanente della tecnica ha deciso da tempo circa il destino delle case. Le case non esistono più che per essere gettate via come vecchie scatole di conserva». Un po’ quel che succede al protagonista. Infatti quest’ultimo è alle prese con una curiosa vicenda di croci disegnate davanti all’ingresso dell’abitazione, dove compaiono strani personaggi, tra il mitologico e il mostruoso, con cui si troverà a sbrogliare la minaccia della perdita della casa e degli oggetti cari. Ma essi dovranno prima di tutto districarsi con un’altra, intricata matassa: quella della illusione ipnotica della scrittura, che rende fin troppo sterile la loro decifrabilità. L’intreccio articolato, le acrobazie stilistiche, la suspence da film noir hanno il fiato corto. La voglia di stupire non basta per ottenere il risultato sperato.

Questa autoillusione è saputa, autocosciente? Il lettore avrà decrittato tutti i significati? L’autore non ci aiuta a farne tesoro comune. Anzi, è massima virtù per Mari tenerli celati allo sprovveduto lettore, verso il quale non ha mai nascosto il suo disprezzo. Contraddittorio fin che si vuole, irrisolto come tutti i grandi scrittori, noi lo amiamo per questo e altro.


Immagine di copertina: Man Ray, Les larmes, 1932

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