Quando ci si imbatte in un libro diverso dalla maggior parte dei libri a cui si è normalmente abituati, un libro governato da un delirio estremamente lucido, che non invita ma imprigiona, che diverte quando dovrebbe repellere e ci fa sentire coinvolti in una realtà in teoria lontanissima dalla nostra, prima di affrontare un libro del genere, si potrebbe ritenere utile un certo tipo di preparazione.
E invece no, io credo che il miglior modo per avvicinarsi a Gli ultimi giorni di Brian Evenson (nottetempo) sia di entrarci dentro con lo stesso fatalismo e la stessa presunta innocenza con cui ci si arrende al traffico tentacolare di Saigon: con un braccio alto verso il cielo, come a voler chiedere il permesso di parlare a una maestra lontana e distratta, il capo leggermente chino, il passo lento e regolare, il respiro trattenuto – l’urto improvviso è sempre in agguato – e gli occhi spalancati.
Perché è vero, Brian Evenson è giustamente considerato uno degli scrittori più innovativi e estremi della ricca e variegata scena horror internazionale, ed è vero che in questo romanzo si rifà all’hard boiled, la famiglia più disperata e cruda del noir, ma trattandosi di uno scrittore di razza, e quindi unico, se ci limitassimo a sommare i generi finiremmo col dare in pasto la nostra addizione a uno specchio deformante che inesorabilmente la trasformerebbe in una sottrazione, impoverendo un libro che invece è tanto scarno e ulcerato quanto ricco e assurdamente vitale: non vi è infatti nulla più vitale della frenesia di un uomo che sprofonda, di un uomo che viene trascinato e che, dopo aver tentato di opporsi, e dopo aver fallito, non soltanto si adegua al ritmo della caduta, ma impone un’accelerazione.
Il protagonista di questa storia, Kline, non verrebbe essere il protagonista di un bel niente, nemmeno il comprimario, nemmeno l’ultima delle comparse. È un uomo stanco Kline, depresso, uno che ha da poco perso una mano durante una pericolosa missione sotto copertura. Somiglia a un osso lasciato a sobbollire a lungo all’interno di un brodo, con gli altri ingredienti che cambiano di forma a causa del calore mentre lui resta più o meno lo stesso, più o meno indecifrabile e distante. Però il mondo ha un fame crudele di novità, il mondo non ama le figure a proprio agio nella depressione, ed ecco che all’improvviso la sua amputazione si trasforma in una sorta di parola magica, di rito d’iniziazione involontario che lo catapulta, suo malgrado, all’interno di una setta, una setta religiosa che storpiando i precetti del cristianesimo, E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te, ritiene l’automutilazione come il solo gesto in grado di elevare l’ignobile essere umano fino a mondarlo di tutti i suoi peccati. Vero è che Kline non si è tagliato da solo la propria mano, ma si è pur sempre auto-cauterizzato, e tanto basta a renderlo la persona giusta per indagare su di un crimine commesso all’interno della setta stessa.
Kline naturalmente vorrebbe rifiutare, resta un uomo stanco, depresso, che preferirebbe di gran lunga trascorrere le proprie giornate fissando il giorno che muore sul soffitto della sua stanza spoglia, ma l’invito a guidare questa indagine assurda e segretissima ben presto si svela per ciò che davvero è: un ordine, un ordine che al proprio interno ospita, come quasi sempre, un enigma, o meglio, un inganno. Né eroe né antieroe Kline si ritrova costretto ad assecondare la forza centrifuga che il delirio del mondo impone alla sua vita schiva e malmostosa, come il bagnante sfortunato che, davanti al nascere di uno tsunami, si renda conto di non aver altro modo per sopravvivere se non quello di nuotare in senso opposto alla riva, sperando di trovare le forze necessarie a surfare l’onda distruttrice che va creandosi davanti ai suoi stessi occhi.
Quando Alessandro Gazoia mi ha proposto di tradurre questo romanzo, io ero una figura simile a quel bagnante l’attimo prima che le acque del mare iniziassero a ritirarsi in modo sempre più pauroso. Amo le scritture degenerate, amo il noir, l’hard boiled, le atmosfere gotiche e orrorifiche, ho provato io stesso a cimentarmi con questi generi in passato e dunque, leggendo l’attacco de Gli ultimi giorni mi sono detto che fosse un testo non soltanto unico ed eccitante, ma anche perfetto per i miei rozzi strumenti letterari. Poi però l’acqua ha iniziato a ritirarsi, e io mi sono reso conto che da placido bagnante mi sarei dovuto trasformare. Ho capito strada facendo che non si può tradurre un libro del genere restando comodi. Certe storie, e questa è una di quelle, possiedeno una musica molto particolare, una melodia rumorosa che non può e non deve essere tradita. L’inglese ha capacità percussive che in italiano rischiano di perdere la propria forza, certe ripetizioni, invece di imporre un dettato musicale e psichico lo indeboliscono.
È stata una bella sfida, bella e faticosa quella che mi ha impegnato durante la traduzione. E devo ammettere che senza l’aiuto di Federica Principi, che mi ha affiancato nella seconda fase del progetto, molto probabilmente sotto quell’onda immane ci sarei tranquillamente affogato. Grazie alla sensibilità e alla precisione di Federica, e spero anche un po’ grazie all’orecchio che credo di essermi fatto come lettore e come scrittore, mi auguro che la musica di Evenson risuoni al suo meglio anche nella nostra lingua.
Non vorrei mai trovarmi costretto a dare spiegazioni a Kline armato di secchio e mannaia.