Le controversie letterarie, nel Novecento, erano cosa serissima, quasi un genere a sé, che in gergo odierno si direbbe meritevole di riconoscimento ministeriale, con tanto di settore scientifico-disciplinare autonomo in classe concorsuale dedicata. Tornarvi, al giorno d’oggi, permette un’esperienza produttiva d’idee, benché un poco inquietante: come quando si torna a guardare ai grandi conflitti ideologici, che nelle strade tristemente opponevano falangi e brigate, gruppuscoli e cani sciolti, si finisce col considerare miope e reazionaria la parte che al tempo s’intronava vettrice di progresso, così le controversie letterarie fan riscoprire aneliti di sovversione e stille di rivolta in chi al tempo sembrava ispirarsi a una concezione moderata e salottiera del lavoro di scrittura.
Questa generale inversione dei fattori, favorita dagli insuccessi nelle battaglie politiche prima che dal tempo, trova una delle sue particolari declinazioni nella controversia tra Manganelli e Pasolini, il quale ultimo nel primo vedeva l’incarnazione graveolente del “teppismo” letterario, declinato nelle forme massimamente degeneri della maniera e dell’ironia. La tesi di Pasolini si può distillare in una sintesi rapida: se lo scandalo controrivoluzionario del conformismo sta nell’“accettazione di una cultura stabilita”, Manganelli lo compie senza sotterfugi né belletti: la sua violenza teppistica si manifesta nella forma esplicita di un “modo di esistere”, tale da svuotare la letteratura di ogni valenza progressiva e da farne un centro per la rieducazione, al fondo divertita, di giovani eresiarchi. Detto altrimenti, il mondo borghese e i suoi canoni si ritrovano in ogni singola pagina di Manganelli nella sagoma di un crittogramma recondito, aristocraticamente inghirlandato nelle estrosità geometriche di forme vuote e nelle pieghe barocche di un disimpegno programmatico, prospettato come vita e destino della letteratura. E forse, al tempo, poteva aver ragione chi riteneva Manganelli la concrezione sapida e pasciuta del disimpegno e dell’impolitico. Eppure, proprio in ragione della sorprendente inversione delle condizioni, che a volte rende rivoluzionaria la conservazione e conservatrice la rivoluzione, la sua pervicace seclusione nel recinto manierista di vortici e lambicchi privi di qualsiasi compulsione a migliorare il mondo fa oggi della posizione di Manganelli la ridotta di una carica rivoluzionaria tutta da scoprire.
Non che si rinvenga una sola e ben distinta fisionomia nel poderoso Riga 44. Giorgio Manganelli, a cura di Andrea Cortellessa e Marco Belpoliti (Quodlibet, 2022), che a cento anni dalla nascita, raccoglie materiali editi e inediti, analisi critiche, medaglioni e saggi, recensioni di amici e detrattori, interventi, interviste e confessioni. Eppure, il “Manganelli politico” balza agli occhi qui in forme sinora sconosciute – sconosciute quantomeno agli occhi di chi l’ha a lungo letto come modello insuperato del genere recensorio. La filosofia politica di Manganelli riluce e folgora in un discorso tenuto l’8 aprile 1968 al Movimento di Collaborazione Civica, parte di un complesso non ampio di interventi meritoriamente ripresi, inventariati e commentati da Emanuele Dattilo (pp. 126-169). Nato sul finire del 1945, il Movimento fu tirato su da persone di «buon volere», mosse dai «sogni più temerari, la carica utopica che li rendeva visionari convinti e che tuttavia, in una prospettiva storica non pedestre, li qualificava come i veri, gli unici realisti: quelli che sapevano in quale spirito occorreva operare per ricostruire non soltanto i ponti e le case e le strade, ma anche i viandanti e gli abitanti di quelle» (A. Frassineti, Il Movimento di collaborazione civica). Ebe Flamini e Augusto Frassineti avvicinarono Manganelli al Movimento, il cui primo notevole effetto si registra appunto nel Discorso sulla cultura (pp. 128-152). Il Discorso dell’aprile ’68 segna l’avvio di una collaborazione rarefatta e sporadica ma non inesistente. Torniamo quindi a quelle pagine.
Quando le erinni liberazioniste erano allo zenith e le lotte ideologiche si traducevano in una guerra dei mondi, quando la violenza non aveva ancora fatto scempio di aspirazioni comunque capaci di incidere sui destini individuali, prima ancora che sui Governi, Manganelli faceva anzitempo professione di quella che oggi potrebbe definirsi postcritica. Lo scambio col pubblico è di quelli che vede opporsi chi s’incarica di una missione dal valore salvifico e universale a chi davanti all’idea stessa di una salvezza ottenuta per procura prova un istintivo sgomento. Non che ci si potesse aspettare altro: ci si trovava nel cuore del Novecento, il secolo della critica radicale, sovversiva, stanca delle utopie confortanti ma alfine conniventi con un presente che per troppi era senza futuro. Il mondo della cultura, junior e senior, era davvero pronto a una mobilitazione permanente che favorisse un’autentica e massiccia presa di coscienza rispetto ai meccanismi di un capitalismo tardo che nemmeno due guerre mondiali avevano saputo scuotere. Per tutto il Discorso, Manganelli e l’uditorio s’inseguono lungo un percorso asintotico, che si chiude con l’ammissione di un’impossibilità – quella di comprendersi.
A un’ermeneutica tanto improduttiva e rassegnata, d’altro canto, dà la stura proprio Manganelli, a cominciare dall’abbrivio, fraintendibile come lo stralcio di un manifesto borghese, impolitico, sconciamente avverso alla pratica serissima della catarsi sociale e politica: il problema della cultura, egli sostiene, è che un discorso attorno alla cultura non può farsi e, quando lo si fa, è per trarre in inganno. Come fa la televisione, che pretende accostare al pubblico ampio un sapere in frattaglie e quinti quarti apparentemente più digeribile ma «solo per chi ha il disprezzo per le propria interiora» (p. 130). Come fa una letteratura che avvicina il gusto del lettore (considerato) privo degli strumenti fini della critica e che così facendo diventa affettuosa, intimista, svagatamente impressionista. Una letteratura che non nasconde il suo «amore ideologico dell’eufemismo» e la pratica oscena di un culto dell’“uomo”, «portatore di viscere», intorno alla cui figura si è costruita una «ideologia degli onesti progressi, delle oneste virtù, tutto un […] moralismo si è creato di cui noi non riconosciamo le tracce».
Il movimento studentesco, secondo Manganelli, era la denuncia degli eufemismi, un rifiuto fragoroso e forse un po’ scomposto degli «inchini ideologici, di cui perfino l’università aveva portato le sue tracce quando si era trasformata, un poco alla volta, in un sistema estremamente rigido, intimidatorio, di mediocri vessazioni intellettuali» (p. 133). Il grido unito delle molte voci orchestrava così un «vattene, con te non voglio avere niente a che fare, io sono una persona seria». Se non fosse bastato questo schizzo timidissimo di qualcosa che invece intendeva scatenare un giudizio universale tutto intramondano, Manganelli prende a gettare ombre sulla massa, «parola che tradisce la sua qualità losca» (p. 134). Il concetto di massa riproduce lo stesso inganno della cultura: lascia credere che sia possibile un discorso semplice, senza spine, facilmente riproducibile e traducibile in molte lingue con alterazioni più che trascurabili. Ma proprio l’idea di facile fruizione dovrebbe mettere sul chi va là, se è vero che «in un discorso come quello culturale che parte dal presupposto che il discorso è sempre difficile, impegnativo, esigente, sottile e comunque faticoso, è chiaro che l’offerta dell’alternativa agevole, che non è mai l’alternativa, ma semplicemente la truffa invece dell’offerta onesta dell’oggetto nei suoi termini, avrà un fascino difficilmente contestabile».
All’affresco sfacciatamente irenico e allo svilimento del progetto culturale di massa, Manganelli unisce il biasimo per chi intende «selezionare i drammi» per quella che rischia di venir rappresentata come «una classe di sottosviluppati» (p. 150), vale a dire gli operai. È l’«affettuoso didatticismo» dei crociati sociali che egli sferza come il vero rischio per le sorti del gesto di rivolta di cui pure tesse l’elogio e che, da diagnosta imprudente, rilega alla malattia dell’efficienza sociale. L’idea cioè che un gruppo di salvifici militanti della società a venire si facciano carico di realizzare un futuro che la più parte non sa né vedere né immaginare. La «teologia dell’efficienza sociale» (p. 145), che vuole ottenere effetti tutti e subito, misurabili con metri di misura invaginati nel sarcoplasma di un’ideologia autoimmune, nega le ragioni di ogni origine rivoluzionaria, che secondo Manganelli è la «rivolta individuale». Beninteso: non c’è alcun atomismo sociale in questo richiamo all’individualità, bensì l’idea che ogni soggetto sia il sito primo e inaggirabile di una dinamica che è innanzitutto linguistica. Se, proprio come credeva Sanguineti, la rivoluzione va tenuta «sopra il terreno delle parole, in quella dialettica […] delle parole e delle cose» (E. Sanguineti, Ideologia e linguaggio, Feltrinelli 1970, pp. 134-135), l’invenzione del linguaggio deve avere il singolo come acciarino attorno a cui si scatena un fenomeno di espansione delle onde, una perturbazione che si propaga favorendo innesti sempre più avviluppati tra soggetto e soggetto, sino a far «nascere un linguaggio in qualche modo più abitabile di quello da cui si esce».
Non c’è dubbio che tutti gli ingredienti per una pietanza indigesta fossero predisposti in bella vista, chiosati dall’elogio dell’inefficienza e dell’improduttivo, vale a dire la studiata adesione di chi scrive e pensa al canone minore di quanto è fuori tempo perché produce «macchine inutili» e quindi è garbatamente ignorato dal proprio tempo né aspira a una pronta riscoperta in un futuro che non intende propiziare. Eppure, sarebbe un errore leggere in questo il cupio dissolvi singulatim dell’eroe solitario che, nella sua narcisistica erezione a centro della storia sua e degli altri, vuol procacciarsi il suo quarto di gloria. Piuttosto, l’eroe di cui si parla è quello che sa rinunciare alla propria biografia minima e si fa pezzo di un macchinario che della cultura fa uno strumento per dire il sé, e che quindi rifiuta programmaticamente ogni semplificazione che mimi quanto già esiste: «Io devo adoperare la cultura […] come uno strumento di chiarificazione e di individuazione di me stesso […]. È un modo di interrogarmi, la cultura che io ho a disposizione. Quanto maggior numero di domande io avrò in mano, cioè quanto più problematica sarà la cultura che io utilizzo, quanto più complessa sarà questa cultura, tanto maggior numero di accessi avrò a me stesso, e tanto maggior numero avrò di modi per descrivere il percorso che io sto facendo e quindi per disegnare me stesso» (p. 139).
Quello di Manganelli, insomma, è un programma politico che abolisce ogni piano salvifico collettivo e si propone innanzitutto di approssimare le condizioni per una rivoluzione a disposizione di chiunque, la prima delle quali è la rinuncia, ora e subito, alla semplificazione. E questo monito è tanto più attuale quanto meno al giorno d’oggi si crede alla possibilità stessa di una rivoluzione: se almeno un tempo si offrivano selettori di drammi, ora che questa ridotta è crollata, rimane un linguaggio – letterario ma non solo – che perlopiù vuole rassicurare, avvicinare gusti e desideri senza alcuna aspirazione a riscriverli, e che ritiene di doversi “abbassare” quando invece non s’è mai sollevato. In tal senso, in Riga 44, l’eredità del Discorso sulla cultura riecheggia nelle parole di Daniele Benati, che di Manganelli esalta il tentativo di «reinventare la lingua letteraria verso una prosa che fosse meno mortificante di quella dei romanzi commerciali», senza cedere alla «pornografia dei buoni sentimenti» e senza indulgere nel piacere onanistico per i nuovi orizzonti. C’è bisogno di un linguaggio più coraggioso, che rifiuti l’«ermeneutica univoca» e che si liberi del «catrame della didascalia». Smettere da subito di considerare il lettore «in termini pietistici, un cliente che non può essere affaticato» e rifiutarsi di semplificare qualcosa che inevitabilmente richiede un lavorio «difficile, impegnativo, esigente, sottile e comunque faticoso». Forse oggi il gesto massimamente rivoluzionario, per certi versi impensabile, è tornare a credere che a questa fatica sia chiamato chiunque e che, da questa, chiunque possa disegnare sé stesso in termini un poco più fantasiosi che non la mediocrità sussiegosa di chi rimuove aggettivi per alleggerire i testi. È forse l’ora di rifiutare i troppi testi da cui si esce come vi si era entrati.
In copertina: Giorgio Manganelli, da Quodlibet