Il romanzo Ore perse. Vivere a sedici anni .di Caterina Saviane venne pubblicato nell’aprile del 1978 nella collana Franchi Narratori (Feltrinelli). Oggi, grazie alla casa editrice Rina edizioni, il libro di Saviane viene salvato dall’oblio e ritorna in libreria. Pubblichiamo di seguito la prefazione di Luciano Funetta, che accompagna questa nuova edizione.
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La notte breve
Non so niente di Caterina Saviane, ma qualche notte fa, mentre camminavo in via Giolitti, credo di averla incontrata. In giro non c’era nessuno. Forse era appena successo qualcosa, oppure qualcosa stava per succedere. C’era un’aria di strana sospensione. Quella notte camminavo in via Giolitti ed era estate. Avevo un appuntamento ma non volevo andarci, così ho imboccato via Giolitti e ho pensato che lì nessuno sarebbe venuto a cercarmi, e all’angolo tra Giolitti e Cappellini, seduta su un gradino davanti a un portone aperto c’era Caterina Saviane.
Avevo visto una sua fotografia, un ritratto di quando aveva diciotto anni, forse scattata in occasione dell’uscita di Ore perse, una foto del 1978. Se non avessi visto quella foto non l’avrei riconosciuta. Invece mi sono avvicinato, anche se tutti sanno che in via Giolitti, quando è notte, è meglio restare dentro la luce dei lampioni.
«Scusami, sei Caterina Saviane?».
«È impossibile» ha risposto.
Se non avessi passato l’ultima settimana a leggere Ore perse in metropolitana, qualche pagina alla volta, un po’ all’andata e un po’ al ritorno lungo il tragitto del lavoro, non credo che l’avrei incontrata, anzi ne sono sicuro: se non avessi letto Ore perse perché qualcuno me lo aveva mandato affinché scrivessi qualche pagina per accompagnare questa nuova edizione, la prima riedizione in quasi cinquant’anni, all’angolo tra Giolitti e Cappellini non avrei visto proprio nessuno. Indisturbato, avrei seguito il fianco di Termini e mi sarei infilato nella stazione della metro. Una volta a casa avrei provato a buttare giù qualche riga sul libro e sulla sua autrice di cui, ripeto, non so nulla, perché è difficile che qualcuno sappia anche solo dell’esistenza di Caterina Saviane senza aver letto Ore perse o le sue poesie pubblicate postume. Se invece si ha la fortuna di imbattersi nella sua letteratura, ci sono buone probabilità di ritrovarsi accovacciati su un marciapiede di tenebra, davanti a una ragazza che non è Caterina Saviane ma che non potrebbe essere altri che lei.
Al suo cospetto mi sento molto vecchio, ma Caterina Saviane non sembra farci caso. A dire il vero non sembra fare caso a niente. Non si guarda intorno, non sta aspettando nessuno. Fuma parecchio.
«Perché fumi?» chiedo.
«La prima boccata per provare, la seconda per piacere, la terza perché soffro».
Parla lentamente, la sua voce viene da un altro tempo che non è così distante ma sembra un abisso. Da qualche parte, di recente, ho letto che con gli anni, con il progresso della tecnologia e con la rivoluzione/disintegrazione del linguaggio a opera dei media di massa, gli esseri umani hanno iniziato a parlare a una velocità sempre maggiore. Proprio a causa di questa accelerazione, se ascoltate oggi, voci registrate solo qualche decennio fa provocano una sensazione spettrale.
Qualche giorno fa, mentre esploravo l’archivio di Radio Radicale, mi sono imbattuto in una trasmissione del 1989 in cui Caterina Saviane, ventinovenne, esprime il proprio appoggio alla Lista Antiproibizionista alle elezioni europee. L’intervento di Saviane è appassionato. Si scaglia contro lo Stato che criminalizza i consumatori di eroina. Annuncia di aver iniziato a scrivere sull’argomento un racconto intitolato Domani smetto. È nervosa e furibonda. La giornalista in redazione non riesce a contenerla. Un attimo prima che le venga tolta la parola, Saviane dice: «Io li vedo. Li vedo. Questi ragazzi qui muoiono, muoiono come mosche».
Due ombre ci passano accanto e non ci vedono, si infilano nel portone, svaniscono.
«Ho letto il tuo libro» dico e Caterina Saviane scoppia a ridere.
«Ma quale libro? Sei pazzo?».
Forse ha ragione. Ore perse è un libro che nessuno potrebbe ricordare di aver scritto. Suppongo che anche chi lo legga abbia l’impressione di trovarsi al cospetto di una materia in dissoluzione. Quando si tenta di dare un nome a questa materia, le parole mancano. Può darsi che si tratti del «dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani», quello sguardo che con il tempo quasi tutti perdono e di cui non resta «niente, neppure una reminiscenza», oppure i «fantasmi inesistenti» a cui i cani della protagonista di Ore perse abbaiano ogni notte. «Sono disperati, abbaiano tutto il giorno e poi, di notte, finita la voce, hanno più fifa di me: abbaiano solo quando, protetti dal solido recinto, vedono altri cani passare per la strada».
In fondo cos’è questo libro, se non una storia di fantasmi e di cani?
«D’improvviso, mi sento mancare il respiro, come la sera prima, e mi domando, in quell’apatico dormiveglia, se è forse il sintomo della morte questo soffocamento che mi sprofonda nel letto. L’alba piano si scalderà al sole, e ruberà ai raggi le ore perse nella notte» recito a memoria. Caterina Saviane, chiunque sia questa ragazza seduta sul bordo di una casa buia e piena di grida silenziose, inclina il capo come fanno gli animali quando non capiscono.
«Che cos’è?» mi domanda.
«Ma davvero non ricordi? Lo hai scritto tu!».
«Certo che sei strano. La smetti di tormentarmi?».
La giovinezza è una notte breve, un’inquietudine che ci sorprende sulla linea d’ombra, già condannati eppure ancora increduli, tra amore e fascismo. Osservo la ragazza e mi chiedo come abbia fatto a scrivere quelle pagine a sedici anni. D’altronde soltanto a sedici anni si è capaci di una tale crudeltà, contro il mondo e contro sé stessi. La vedo mentre scrive nella casa in cui vive con il padre Sergio. Entrambi già svegli all’alba, scrivono. Il suono della macchina da scrivere di Caterina, quella «macchinetta dal battito cardiaco stonato», è già un suono adulto. Scrive a una velocità che mi fa paura.
Scrive: «È morto anche Pasolini, ieri, e io ancora vivo, sacramento».
Penso a Raymond Radiguet, penso a Goffredo Parise. A quest’ultimo Caterina Saviane non le manda a dire: «Mi capita tra le mani un libretto giallo, polveroso, uno di quei libri dall’aspetto di vecchio, stagionato come i salami. Meglio uno sconosciuto che quei coglioni di Bevilacqua e Parisi, Parigi, Pariso, come cazzo si chiama». Tutto invecchia in fretta, per chi scrive dalla linea d’ombra, e tutto quello a cui ci si dovrebbe aggrappare diventa una malattia: «Gli amici, il gruppo, il partito, i femministi e gli antifemministi, le piccole vedette lombarde, le brigate rosse, i festival dell’Unità, i viaggi all’Elba o quelli a Parigi, Numana, Tarquinia, Sandokan o il Gesucristo televisivo, le serate tutti insieme luminose e stupende che ti diventano subito nemiche perché son troppo belle».
Resta solo una strada, quella delle «parole che vanno a capo», la poesia di Whitman, Masters, Kerouac, idoli del tempo, e poi il caro Leopardi. Dopo Ore perse, Caterina Saviane non pubblicherà più neanche una riga di prosa. Qualche poesia su una rivista chiamata «Il lettore di provincia», nient’altro.
D’altronde, si sa, la letteratura italiana, come tutte le letterature, è fatta di poeti dimenticati, di ragazzi terribili che sanno come farsi odiare. Una lista infinita. Abbiamo letto i loro libri e dei loro volti non abbiamo che qualche introvabile fotografia. Non possiamo dire altro, se non che sono le poetesse e i poeti della notte breve. Faremo i nomi quando servirà. Quando ci chiederanno da chi abbiamo imparato ad andarcene nottetempo in via Giolitti, sapremo rispondere.
«Ho un’idea. Andiamo all’Acattolico a trovare Gregory Corso» dico alla ragazza che adesso, nei fari di una macchina che passa, non somiglia più a Caterina Saviane, ma forse è ancora lei.
«Non posso».
Non c’è più nulla da fare. Dal buio delle scale una voce la chiama, le dice di salire.
«Va bene, allora ciao».
«Ciao».
E così ci separiamo: Caterina Saviane, la ragazza di cui non so niente, nel suo tempo e io nel mio.