Federico Riccardo non è un nome sconosciuto quando si parla di litweb, riviste letterarie e racconti in genere. Classe 1991, ha fondato insieme a Simone Sciamè il magazine Topsy Krett, incentrato sulla narrativa breve. Ha esordito nel 2020 con la raccolta di racconti Il tempo è il binario di un tram, a cui è seguita l’anno successivo una seconda raccolta, Le vie di mezzo – Esercizi di immobilità.
A maggio 2024, per le Edizioni Effetto, è venuta alle stampe la terza raccolta, Tender. È composta da racconti fra le quattro e le circa venti pagine, preceduti da una prefazione di Valentina Mira e seguiti da due “Bonus track” – ossia scambi di mail che vedono al centro la nascita della raccolta stessa – e un Saggio sull’estetica dell’oggetto nei racconti a cura di Alberto Bergamini.
Nella prefazione, Valentina Mira racconta bene cosa possiamo trovare nel libro di Riccardo: «C’è dentro tanto di quello che amiamo e che riconosciamo come millennial, una grammatica, degli oggetti che sono contesto e personaggi stessi […], il precariato e il cibo da precariato». La cultura millennial è ormai radicata e, per una questione anagrafica, si può tranquillamente affermare che la sua prospettiva si stia affermando (se non lo ha già fatto) come quella dominante nella scena letteraria. Lo è sicuramente nell’ambiente delle riviste, dove l’età media degli autori è intorno ai trent’anni o poco più. E ha ragione Mira quando afferma che nelle storie di Federico Riccardo troviamo la grammatica, l’oggettistica e le tematiche tipiche della cultura millennial italiana.
Volendo essere più specifici – e senza dilungarci troppo perché non è questa la sede per sviscerare il tema – possiamo dire che la grammatica millennial utilizza un linguaggio contemporaneo, pop, e lo mescola con alcune forme internazionali: cresciuti (ma non nati) nell’era della rivoluzione digitale di Internet, i millennial hanno vissuto un’infanzia fatta di famiglia, televisione e cultura italiane, per poi scontrarsi con tutto ciò che italiano non è e che è stato possibile afferrare tramite Internet.
Riguardo l’oggettistica, come leggiamo nei racconti di Riccardo, il millennial è ancorato agli oggetti materiali come lo sono gli appartenenti alla generazione dei boomer ma più per una questione culturale che di mero utilizzo: nell’uso quotidiano, i millennial sono più vicini alla generazione Z, che della dematerializzazione hanno fatto il proprio centro (quindi, per fare un esempio: la musica si ascolta su Spotify ma il vinile lo si conserva per collezione).
Le tematiche, infine, sono incentrate sul precariato lavorativo ed esistenziale, sui rapporti interpersonali non sempre vincenti, sulle relazioni sentimentali fallaci. L’incertezza è il perno intorno al quale tutto ruota. In questa lunghissima adolescenza che costituisce i trent’anni, il millennial ha su di sé le incombenze dell’adulto che già è (come già a trent’anni erano più che adulti i baby boomer) e il desiderio di rivalsa e spensieratezza di chi giovanissimo proprio non lo è più. Adulti mancati, potremmo dire, o forse giovani non più giovani.
Ecco allora che quella che sembra una lunga premessa per parlare dei millennial trova in realtà pieno riscontro nei racconti di Federico Riccardo. Ad esempio nel secondo racconto, Apocalisse, nel quale una coppia sembra vivere separata da tutto il resto, mentre il mondo va in pezzi. È il protagonista a dire: «Dovresti leggere tutti gli incipit dei racconti che sto scrivendo […], ti renderesti conto dell’inutilità di questo momento storico, questo grande nulla che come una muffa si attacca alle pareti dell’esistenza e non va via». Eccolo, dunque, il sentire comune della generazione millennial: la sensazione di esistere in un’epoca di passaggio, segnata da eventi storici che non fanno che rendere il mondo intero più cupo e incerto. Ma il sentire comune ha anche un’altra caratteristica, diretta emanazione di quanto detto finora: il contrasto con la generazione dei genitori, quei baby boomer visti da molti (se non tutti) millennial come la causa principale di questo mondo alla deriva. Le sicurezze economiche del dopoguerra, unite a una visione cieca della storia, hanno portato – secondo la prospettiva millennial – a un mondo arido, privato delle proprie risorse, inquinato. In poche parole: malato. E questo odio, che molto spesso è un odio passivo-aggressivo, lo ritroviamo nel racconto Vecchi, nel quale il protagonista immagina (e può solo immaginare, appunto) una strage all’ufficio postale.
È nel racconto successivo, Amore, che invece viene affrontato il tema delle relazioni sentimentali. Due ragazzi si incontrano a un rave. Non avendo di meglio da fare, iniziano a frequentarsi, per poi scoprire di non avere nulla in comune. Questa sensazione di inutilità delle cose e dei rapporti è esemplificata alla perfezione da uno scambio di battute verso la fine del racconto:
«Vogliamo uscire, allora?»
«Per andare dove?»
«A mangiare.»
«Non mi va.»
«Ok, ma mi avevi detto di sì pochi secondi fa.»
«Ho cambiato idea.»
Anche il racconto che dà il titolo alla raccolta è sulla stessa linea, anche qui la relazione fra i due protagonisti ha ben poco di romantico e somiglia a quelle frequentazioni tossiche di due persone che stanno insieme per obbligo. È un racconto, Tender, che affonda i denti nei cliché attribuiti alle persone di bassa estrazione sociale, che si arrabattano fra lavoretti in nero, serie tv demenziali e incapacità di gestire il denaro a lungo termine. Qui il linguaggio si fa sporco, volgare e rende bene la saturazione dei toni all’interno di una coppia che sembra amarsi e invece si odia.
In Mario e io, penultimo racconto della raccolta, i due protagonisti sono degli hikikomori, fenomeno giapponese trapiantato per assimilazione anche in occidente. In poche pagine si affronta il tema della solitudine cercata di proposito, qualcosa che sembra essere più frequente nei giovani intorno ai vent’anni che negli over trenta (alcuni studi, infatti, parlano di un fenomeno diffuso nella generazione Z), soprattutto dopo il Covid.
Il racconto di coda, Sbucciarsi le ginocchia, è forse la summa di quanto detto finora. Si parla di relazioni che iniziano e finiscono senza un reale motivo, di una nostalgia verso un passato che sembrava migliore – più sicuro, più saldo – del presente, di un’estetica degli oggetti, appunto, sotterranea nella cultura millennial. È qui che affiora l’idea della scrittura come luogo di evasione ma anche come terreno di scontro: «Sì, si diceva, scrivere è questa roba qui: un compromesso totale con il resto del mondo. Una manciata di soldi in cambio di una fatica infinita alla ricerca per tutta la vita di termini da incastrare e non ripetere». Incastrarsi nelle regole di una lingua senza ripetersi: questo sembra il destino di ognuno di noi, in fondo. Il tentativo di essere inseriti da qualche parte, in un sistema che esiste da sempre prima di noi, cercando al contempo di emergere dal magma indistinto del potenziale. Se questo è vero per tutti, lo è ancor di più per quelle generazioni cresciute nell’era della globalizzazione, del digitale e della standardizzazione dei processi e dei lavori.
Tender, di Federico Riccardo, è dunque una raccolta che funziona perché – pur trattando argomenti diversi con stili a volte diversi – esplora un sottoinsieme culturale ben preciso. Lo seziona, lo elabora e ne mostra impietosa l’immagine allo specchio.
Nell’economia del testo, se la prefazione di Mira e il saggio di Bergamini sembrano essere un plus –in quanto la prima ci aiuta a inforcare le lenti giuste attraverso le quali leggere le pagine che seguiranno, mentre il secondo tratta di uno specifico tema a volte sottovalutato, ossia l’importanza degli oggetti nella cultura –, le due “Bonus track” invece sembrano non aggiungere alcunché di rilevante. Sono scambi personali, uno dei quali è la richiesta dell’autore a Valentina Mira riguardo la prefazione. Queste pagine, insieme all’eccessivo uso di linguaggio volgare – diverse sono le occorrenze di bestemmie che nulla aggiungono alla trama –, abbassano un poco il valore dell’opera che, in ogni caso, rimane interessante da affrontare.
Immagine di copertina: Christopher Richard Wynne Nevinson, In aria, 1917, litografia, cm 40×30, Tate, Londra