La vita profonda di Martina Faedda (nottetempo) ha il respiro di un racconto lungoscandito da ventotto capitoli brevi i cui titoli rimandano il più delle volte a romanzi, canzoni, film, versi. Sin dalle prime pagine colpisce la capacità della giovane scrittrice esordiente di orchestrare la storia, e condurci, con una prosa piana e cadenzata, dentro la vita profonda della protagonista, la diciottenne Olivia, che si è appena trasferita a Torino insieme ai suoi due padri: Gioele, il padre biologico, e Vittorio, il padre acquisito in quanto compagno della madre, morta in un incidente quando Olivia aveva solo sei anni.
Gioele e Vittorio, oltre a non starsi particolarmente simpatici, sono molto diversi tra di loro, per non dire opposti, come uomini e soprattutto come genitori: se infatti Gioele rappresenta per Olivia la disciplina e il controllo, una sorta di padre inflessibile della “Legge” che mina le sue insicurezze, Vittorio incarna il ruolo del padre comprensivo e amorevole che incoraggia la figlia continuamente. La pianta della casa di Torino, la cui dettagliata descrizione riempie tutto il secondo capitolo, fotografa perfettamente il delicato quadro familiare: Gioele e Vittorio vivono in due appartamenti separati, divisi soltanto da due porte e due librerie imponenti, ma simmetricamente disposti intorno alla stanza della figlia come due polmoni, entrambi necessari, vitali. La casa diviene la topografia interiore della protagonista la quale, nonostante tenti di conciliare le dualità di cui è costellata la propria vita, si ritrova continuamente divisa: appunto Due Olivia, come è titolato il capitolo in cui la protagonista sottolinea non tanto la difficoltà di avere due padri, ma di essere una figlia per entrambi tanto da costringerla ad assumere «due forme così lontane tra loro e lei» e sfiancarsi per soddisfarle.
Come se non bastasse Olivia si lega profondamente a due coetanei conosciuti nel nuovo liceo, Clara e Lele, guarda caso due gemelli di cui lei invidia l’amore tra loro «viscerale» e «incondizionato»:
«Il fatto di avere un’altra persona, un complice che vive tutto con te, dal primo istante. Il tuo sangue, la tua carne. Come se esistesse una legge biologica che rende ogni parte di te – le migliori così come le peggiori – accettabile. Amabile, perfino. Uno specchio che ti restituisce un’immagine di te epurata di quella repulsione che Olivia, invece, provava da sempre. Perché eccola, di fronte a te, l’altra persona. Siete la stessa cosa, e nell’amare lui ami te stessa.»
La vita profonda oscilla intorno a queste dicotomie, senza mai cadere nella banalità, sebbene la complessità dei legami familiari possa talvolta apparire stilizzata, privata di tutte quelle sfumature che invece la contraddistinguono; del resto non è forse una peculiarità dei giovani come Olivia (e come la stessa autrice) vedere la realtà o bianca o nera? Olivia aspira all’assoluto, ricerca disperatamente un’unità che solo l’unione di due esseri, madre e figlia, sembrerebbe garantirle: non è un caso che la vita della protagonista sia segnata dalla perdita della madre. È una fusione impossibile, spesso idealizzata, quella a cui Olivia tende, in cui il corpo viene percepito come un ingombro, un ostacolo da rimuovere. Di certo non l’hanno aiutata gli «insegnamenti sacri» del padre Gioele – una sfilza di consigli alimentari e comportamentali non richiesti, che lui crede di dispensare a fin di bene:
«Ogni mattina bevi un bicchiere di acqua calda e limone, aiuta a bruciare.
Riempi solamente un piatto a ogni pasto, non prendere più porzioni.
Bevi almeno due litri d’acqua al giorno, ti sgonfia.
Il sale fa ritenzione, usane poco ché ti viene la cellulite.
Stai dritta ché ti vengono le tette tristi. Se non fai sport non sviluppi i muscoli della schiena e diventi gobba, agli uomini non piacciono le tette cadenti. Agli uomini piacciono le donne in forma.»
Non è difficile immaginarne gli effetti devastanti sulla figlia. L’unico modo che Olivia ha per soddisfare Gioele, per richiamare le sue attenzioni, è accanirsi contro il proprio corpo «eliminando con le unghie uno strato di pelle dopo l’altro e rimuovendone uno al giorno, meticolosamente» oppure tagliandolo:
«Prese il coltello dal cassetto e andò in bagno. Davanti al lavandino cominciò quel suo rituale salvifico. Premette la lama contro il polso e incise lentamente, profondamente, indugiando su ogni istante di dolore freddo, il braccio un bruciore indistinto. Per lei era come il sesso, un’impazienza smaniosa e atrofizzata che la spingeva a rallentare, per godersi almeno il dolore. Il sangue cominciò a scorrere più copioso del solito. Olivia staccò il coltello, poi procedette con un secondo taglio, quasi uguale, e infine un terzo, un po’ più sotto. Il tempo scorreva e con il tempo scorreva il suo sangue.»
Così, quando il padre Vittorio si ammala gravemente l’unico modo che Olivia crede di avere per salvarlo è trasformarsi in uno scheletro.
Con una prosa lucida e distaccata, grazie anche alla scelta di narrare la storia in terza persona, Faedda accompagna le azioni e i pensieri di Olivia, inquadrando ogni singolo dettaglio senza però mai indugiarvi; solo nell’epilogo sceglie di farci sentire direttamente la voce di Olivia in prima persona – scelta quanto mai azzeccata perché rompe quella freddezza (necessaria) del racconto precedente e lascia così defluire liberamente le emozioni. Solo dall’accettazione della morte, e della nostra fragilità di essere umani, la vita profonda può risalire in superficie.
Anoressia e autolesionismo vengono descritti senza giri di parole, in modo diretto e conciso. E proprio per questo ancora più doloroso. Ciononostante l’anoressia viene nominata solo una volta nel libro e da un dottore a cui Gioele si rivolge dopo aver trovato la figlia in condizioni devastanti: «Di anoressia si muore, Gioele», gli dice il dottore cercando con le parole di infrangere quel muro di gomma che il padre aveva eretto per non vedere la sofferenza della figlia.
Se l’anoressia è l’argomento scottante del libro, è anche la punta di un iceberg che ne svela il vero tema, ovvero la domanda di amore, o meglio «domanda del segno dell’amore», come spiega in modo approfondito Massimo Recalcati ne L’ultima cena. Anoressia e bulimia, appena ripubblicato in una edizione aggiornata da Castelvecchi: «La domanda anoressica, esibendo provocatoriamente le stigmate del proprio corpo – di un corpo che presentifica l’imminenza del rischio della morte -, è una domanda d’amore rivolta all’Altro». Sempre usando le parole di Recalcati potremmo dire che Olivia «è disposta a lasciarsi morire (di fame) per amore. Per poter scavare una mancanza dell’Altro»: Gioele, Vittorio, Lele, la stessa Clara.
«Bruciavi d’amore per la vita – scrive Olivia a Vittorio – ed eccomi consumare la mia davanti ai tuoi occhi. È soprattutto questo a mancarmi di te, quell’amore per la vita che mi è sempre sembrato un’altra delle cose che ci rendevano diversi, che mi rendevano non tua. Ma spero di sbagliarmi, perché ne avrò bisogno se dovrò viverne una intera senza di te».