«Paure e preghiere
ossessioni
e poi immani
sorrisi delle ossa
bisogna titubare
sentirsi precari
ora per esempio mi sento leggero
come una nuvola che affonda»
Con questi versi Emiliano Cribari è approdato alla mia porta. Con passo silenzioso, sommesso, lo stesso dei giorni senza data, delle foglie che cadono stanche, dei racconti incompiuti. Il titolo della raccolta è anche manifesto della sua poetica e della sua esistenza: La vita minima (Ed. Anima Mundi, 2020).
Emiliano è poeta, fotografo, cercatore di luoghi perduti. Racconta l’eternità delle storie semplici. Sull’Appennino di Dino Campana (Ed. Emuse, 2023) ha tracciato i passi del poeta marradese lungo montagne e sentieri tra cui ebbe in dono parole infinite, rimaste poi scolpite nella storia della letteratura.
La bellissima collana Piccola filosofia di viaggio di Ediciclo Editore ha chiesto a Emiliano di condurci nel bosco in un giorno di pioggia. Per imparare ad ascoltare, ad accogliere. Perché «tutto oggi è insopportabile» e «camminare nel vago, nell’altrove, a distanza da quell’osannata perfezione, è foriero di una gioia sottile e clandestina, intima e profonda come poche altre».
In questa conversazione quasi sussurrata con Emiliano Cribari, immaginata nel silenzio del bosco, in attesa del momento in cui la pioggia si sarebbe abbattuta su di noi «con dolcissima furia», abbiamo provato ad attraversarla e percepire «l’eccitante sensazione d’essere soli, nudi, vivi, alla scoperta di tutto ciò che mentre piove, è più vivo che mai».
Nell’incipit ha scritto di aver trascorso l’infanzia ispezionando il cielo prima di uscire di casa, guardandosi le spalle da ogni nuvola minacciosa.
Quando e come ha deciso di mettere gli scarponi e iniziare a camminare?
Già da ragazzo, soffrendo d’insonnia, la mattina presto uscivo e camminavo.
Mi affascinavano le case, gli orti, le cose sospese fra un inizio e una fine, le cose indifese. Ho iniziato a osservare non capendone il perché, solo lasciandomi guidare da questa attrazione verso il silenzio, la malinconia. Ancora non era scaturita, la poesia.
Poi ho iniziato a girare i paesi: prima quelli del Sud, più tardi anche i paesi dell’Appennino. Più che le voci ne auscultavo i battiti, i respiri. Forse le cose più vere, più intense che ho scritto, riguardano proprio le case, la mia immaginazione che cerca il suo utero, il suo sonno, nel segreto delle case sconosciute, oltre i muri che racchiudono alcove.
Infine, quando a chiamarmi è stato il bosco, queste pratiche di ascolto si sono affinate, andando a indagare in una dimensione più spirituale.
Perché la pioggia è un’occasione per ingegnarsi, sporcarsi, spalancare il nostro cuore?
Perché da quando non viviamo più secondo natura, ciò che intralcia i nostri piani di programmatori, consumatori, confezionatori di realtà “perfette”, è stato prontamente demonizzato: la pioggia, la nebbia, il caldo, sono improvvisamente diventati nemici, spauracchi, intralci. Ciò che non si può manipolare, modificare, condizionare, adeguare all’idea nostra di benessere è tacciato come altro dal bene (“mal-tempo”), dal bello (“brutto tempo”), diventando automaticamente “allerta”: se io diramo un’allerta ogni giorno, per tutto, senza distinguere tra pericolo vero, reale, contingentato, e normale fenomeno naturale, genero terrore tanto quanto indifferenza: le parole, ripetute all’infinito, si svuotano del loro significato.
Nelle scuole, i bambini ancora legano la pioggia alla felicità, a un’opportunità per sviare dall’ovvio, per vedere le cose sotto un altro punto di vista. I più dolci ricordi di un viandante sono quasi sempre legati alla pioggia, allo stupore che genera ascoltarla, sentirsela addosso, uscirne battezzati, indenni.
Nel titolo è racchiuso tanto un auspicio quanto una convinzione: la pioggia cura. «Esorta chi è in ascolto a raccogliersi, a ritrovarsi».
Cosa ha curato in lei?
Essenzialmente una paura: quella che la pioggia – non l’uragano, non la tempesta, ma la pioggia – fosse sinonimo di guaio, di noia. E allora ho iniziato a perlustrarla, questa sedicente noia, seduto sotto i faggi, gli abeti, imboscato in un capanno, in un bivacco. Mi sono fatto trovare, tremante di gioia, all’appuntamento con le tegole, i secchi, le grondaie, con quest’orchestra venuta a suonare una musica nuova, inattesa, senza nome e senza note, una musica senza spartito dedicato a chi è partito, o è tornato, a chi ha deciso di “stare“ nell’attimo presente. Questo offre la pioggia: un’opportunità per dire “ora e qui”.
In che modo, vivendo in sintonia con la natura, si possono trarre le più grandi ispirazioni per le proprie idee?
Ascoltandola. Quando lavoro coi bambini, nel bosco, c’è sempre un momento in cui chiedo loro di acuire l’ascolto di ciò che hanno intorno. In quel silenzio, ognuno, a turno, deve dire che suono ha sentito: “il canto di un uccello” dice uno, “il vento tra le foglie” dice un altro, e così via. Finché per poter dire qualcosa di nuovo bisogna diventare dei ragni, delle formiche, ascoltatori di suoni quasi impercettibili! Ripetendo questo esercizio, ognuno per sé, non soltanto con l’udito ma anche con la vista, concentrandosi su un pugno di terra nel palmo di una mano, si può accedere a una gioia che resiste al tempo, che radica e diventa memoria, che germina e diventa ispirazione, stupore. C’è una poesia che nasce dagli occhi (e ha il proprio eco, come tutta la poesia, nei ricordi), che è sinonimo di stupore. Più viviamo imballati, relegati in gabbie dove tutto è prevedibile e previsto, più disconosciamo questo stupore.
«La pioggia asciuga. Diluendo il troppo che ci appassisce». Un ossimoro che sollecita una riflessione necessaria.
Cosa ci appassisce?
Troppe volte io inizio a camminare divorato dai pensieri. Da pensieri roboanti, ossessivi, circolari, che annullano l’unica cosa che conta: il silenzio. Ci metto sempre un po’ a rendermene conto, che sono in una foresta ma che sto camminando spento, come se fossi in una strada del centro. E allora a volte serve un richiamo, quello che a scuola non era un grido ma il silenzio ostinato del docente: la pioggia è questa voce ammutolita che chiede silenzio: chiude le voci, le ammaina, ci riduce a puri passi e a più fruttuose esplorazioni interne. La pioggia, appassendo il vocìo del nostro io, nutre lo stupore.
In questo libro ha tracciato una sorta di mappa poetica della pioggia, anche attraverso le parole di scrittori come Montale, D’Annunzio, Pascoli, Gozzano, Rigoni Stern, Pavese.
Quale legame ha individuato tra pioggia e poesia?
Bobin scrive che «solo i poeti prendono il mondo sul serio, coloro che hanno la reputazione di essere distratti, storditi, di non misurare le cose, di non conoscerne la pesantezza. Sono loro che conoscono la pesantezza, il dramma delle cose e anche quanta luce contengono. Sono i soli veggenti e i solo che respirano in questo mondo». E i poeti di Bobin non sono soltanto i poeti, gli scrittori, ma tutta quella “piccola tribù” di contemplativi che ancora abita umanamente (quindi poeticamente) il mondo. Saper ascoltare la pioggia, la nebbia, l’incanto e il disincanto, è restare nell’attitudine – salvifica – alla contemplazione: io credo che non esista altra strada che questa, che già fu tracciata e che abbiamo abbandonato.
«Chi cammina non chiede, ringrazia».
Come cambia la nostra vita quando iniziamo a camminare?
Quando iniziamo a camminare scopriamo che lo zaino che portiamo sulle spalle è troppo carico, troppo pesante: è pieno di cose che non ci serviranno.
Quando iniziamo a camminare scopriamo che le spalle fanno male, che le caviglie fanno male, che i polpacci fanno male. Che per salire occorre imparare, a fare silenzio e a darsi un passo regolare.
Non ci sono scorciatoie: serve tempo. Non basta andare in un bosco per star bene: occorre “stare” in un bosco, in cammino, lasciare che anima e corpo si abituino al passaggio dalla pesantezza alla leggerezza, dall’obesità alla magrezza, dalla complessità all’elementarietà. Varcata questa soglia, necessaria per scendere in profondità, il cammino diventa un’ascesi, una scelta politica estatica e definitiva, un pellegrinaggio. Non ho conosciuto gioie più alte di quelle esplose all’improvviso, da un alito divino di niente, in viaggio.
Ha scelto di concludere l’ultima pagina con questa affermazione: «Se noi uomini sappiamo qualcosa, è più merito della pioggia che dei libri». Cosa ci insegna?
È una frase di don Bruno, che non è un nostalgico ma un uomo saggio che sa cosa si è perso, cosa dovremmo imparare dal passato. Don Bruno racconta di suo padre, che era sempre al lavoro e che la sera tornava così stanco a casa da non riuscire neanche a fare una carezza ai propri figli. Siccome allora i lavori erano tutti (o quasi) all’aperto, la pioggia costringeva le persone dentro casa: ecco perché per i bambini la pioggia era una festa! Perché finalmente potevano giocare con i padri, le madri, potevano raccontarsi e farsi raccontare: potevano imparare, altro e in altra misura, più lenta. La pioggia (non quella che straripa dai fiumi strozzati dalla presunzione umana, ma la pioggia sensuale e poetica che accade come una benedizione sulla terra) insegna a rallentare il proprio passo, a cambiare il tono del proprio sguardo.