Esiste un confine tra il disagio della coscienza e il timore della condanna altrui? Quanta vergogna può provare un uomo? E che potere ha sulla sua vita?
Indignatevi! esortava nel lontano 2010 il politico e scrittore di origine tedesca Stéphane Hessel, in un saggio piccolo e audace che divenne in breve tempo un caso editoriale. A distanza di tredici anni, il filosofo francese Frédéric Gros non nasconde le ambizioni di indagare un sentimento diverso, attraverso un libro dal titolo sicuramente meno assertivo, La vergogna è un sentimento rivoluzionario (nottetempo 2023, traduzione di Raffaele Alberto Ventura): non un imperativo categorico come nel caso di Hessel, ma un invito a esplorare l’origine e il potere di tale emozione.
«La vergogna è il sentimento centrale della nostra epoca, il significante di nuove lotte. Non si grida più all’ingiustizia, all’arbitrio, all’ineguaglianza. Si grida alla vergogna». Ma che cos’è questo movimento dell’anima che pervade le vite e che non di rado si sovrappone al senso di colpa? E soprattutto (ed è forse l’intuizione più interessante dell’opera), che ruolo ha avuto e ha nella società e nella politica? Il passaggio fondamentale, sostiene Gros, si ha con l’avvento del cristianesimo: fino ad allora, infatti, la vergogna era un sentimento «clanico», legato all’onore e al disonore di fronte alla comunità e alla famiglia; non si trattava, perciò, di un atto privato, bensì di un’esperienza inscindibile dal gruppo, dallo sguardo degli altri e dalla vita comunitaria. E, in quanto tale, era possibile, talvolta, porvi rimedio, rimuoverla attraverso passaggi e riti in grado di restituire giustizia e obliare l’umiliazione subita. E quando, come nella maggior parte dei casi, la vergogna coinvolgeva il corpo delle donne e la sua violazione, la vendetta era il rito più efficace. Il cristianesimo, prosegue Gros, indebolì l’aspetto clanico, introducendo i concetti di colpa e rimorso solo nei confronti di Dio, eliminando (almeno in apparenza) la preoccupazione per il biasimo terreno. Ma se la religione tentò di distogliere lo sguardo dalla disapprovazione sociale, fu il capitalismo a trasformare per sempre la vergogna.
A spiegarlo, prima di Frédéric Gros, fu Charles Dickens: Grandi speranze è di fatto un’opera che ruota proprio intorno ai temi dell’umiliazione e della vergogna. La società ottocentesca e l’ascesa della borghesia ridefinirono i confini della comunità e della famiglia: di fronte a un mondo sempre più grande e sviluppato, il gruppo sociale divenne minuscolo (senza però che ne fosse minimizzata l’adesione del singolo individuo), perciò tutto ciò che non rientrava nel microcosmo famigliare e sociale iniziò a essere considerato estraneo, diverso (e di conseguenza oggetto di disapprovazione e critica). Ma quel che il capitalismo inventò davvero fu un nuovo tipo di vergogna: quella di essere poveri, unita alla colpa del fallimento. Pip, il protagonista del romanzo di Dickens, è un orfano, ed è perciò escluso dal modello di vita borghese: ma è anche povero, perciò soggetto al disprezzo perpetuo (solo l’arrivo improvviso di una grossa somma di denaro lo salverà da questo destino). Nelle prime scene si confronta subito con questa realtà: dopo il suo incontro con Magwitch, un galeotto fuggito di prigione, è costretto a rubare un po’ di cibo e una lima per aiutarlo. La paura e la vergogna di essere scoperto, si intrecciano al senso di colpa per aver sottratto alla sua famiglia le leccornie preparate per il pranzo di Natale. Il terrore di essere umiliato di fronte a tutti arriva al suo culmine quando la signora Gargery si rende conto del furto e alla porta si presentano due soldati armati.
La coscienza di essere poveri ed emarginati, si ritrova ancora in una scena di poco successiva e ricca di umanità: Magwitch riceve il cibo da Pip e comincia a divorarlo senza alcun criterio, come se il suo scopo, spiega Dickens, non fosse tanto nutrirsi (è impossibile soddisfare un corpo così affamato), quanto nascondere e proteggere per sempre ciò che gli era stato offerto.
Scrive Frédéric Gros: «Fondamentalmente il vero problema della povertà non è costituito dalla ricchezza, bensì dalla miseria», che rappresenta un gradino ancora più in basso rispetto alla povertà: se i ricchi, suggerisce Gros, «si vergognano di non essere abbastanza ricchi. I poveri sono ossessionati dalla miseria ed è per questo che la vergogna li accompagna come una minaccia suprema». «Se l’ethos del ricco consiste nel produrre invidia, quello del povero consiste nel non produrre vergogna». I segni ostensivi della povertà vengono perciò nascosti, occultati attraverso accurate strategie di sopravvivenza sociale.
Come nel caso del romanzo Fame (Adelphi, 2002, traduzione di Ervino Pocar) di Knut Hamsun, in cui la miseria si fa strada nella vita del protagonista attraverso la perdita o il logoramento di vestiti, scarpe e oggetti personali: cacciato di casa perché non riesce a pagare l’affitto, un giovane scrittore nella Norvegia di fine Ottocento, si ritrova a vagare per la città sperando di trovare un posto e guadagnare qualcosa attraverso la vendita dei suoi articoli. Prima di andare via prende un paio di colletti puliti (gli abiti sporchi sono infatti, uno dei segni più vistosi della povertà), un fazzoletto e della carta e avvolge il tutto in una coperta verde. A metà strada comincia, però, a essere infastidito dal suo fardello e vuole disfarsene: si rende conto che proprio questo frugale bagaglio lo identifica come un uomo bisognoso e senza una casa: «non stava proprio bene mostrarmi in mezzo alla gente con quel fagotto sotto il braccio». Decide, perciò, di depositarlo presso un negozio, ossia di rinunciare a tutti i suoi averi pur di non essere osservato e giudicato dagli altri: «Avrei fatto una figura migliore e non avrei dovuto vergognarmi di portare il pacco».
La vergogna non ha sempre la forma del caso, ma spesso conserva i tratti di una volontà ostinata e brutale. Condanna all’immobilità, e, tuttavia, presuppone un doppio movimento, prima esteriore e poi interiore: non basta, infatti, subire una mortificazione per vergognarsi: occorre che il soggetto assorba la colpa e la faccia sua.
Persino la nascita e la trasformazione degli Stati possono essere ricondotti alla vergogna. Gros ne cita uno, l’origine della res publica romana e il ruolo che ebbe lo stupro di Lucrezia così come è stato raccontato dalla leggenda: legata alla cacciata dell’ultimo re di Roma, si suicidò pur di non sopportare la certa e futura umiliazione pubblica per la violenza subita dal compagno d’armi del marito. L’analisi dell’intera vicenda da parte di Gros è interessante soprattutto perché lega la vergogna (in questo caso suscitata da un atto di violenza sessuale) al destino di uno stato. La prevaricazione e il disonore da parte un gruppo o di un Paese su un altro gruppo o un’altra nazione, è alla base, per esempio, delle politiche colonizzatrici. Nel suo libro Vergogna. Considerazioni globali sulla violenza sessuale, (Carocci editore, 2023) Joanna Bourke esamina il ruolo che la violenza sessuale ha nei conflitti armati: lo stupro (e la conseguente vergogna che investe le vittime), non è solo un atto brutale, fine a se stesso, ma contiene un messaggio politico simbolico «come insulto alla virilità del nemico» e «come dichiarazione di dominio». La violenza sessuale durante i conflitti ha come scopo non esplicito proprio l’umiliazione e la distruzione dei legami, del tessuto sociale e delle relazioni all’interno dello stato avversario.
Ci si può vergognare della propria nazione, dice Gros, e non c’è emozione più potente. La storia recente ce lo dimostra: basti pensare al sentimento che investì la Germania alla fine della Seconda guerra mondiale, o a quello che l’opinione pubblica statunitense provò alla vista degli orrori in Vietnam. O al disagio silenzioso che avvertiamo di fronte alle immagini delle guerre, della povertà, che non si trasforma mai in vera rabbia. Ed è a questo punto che Frédéric Gros compie un ulteriore passaggio: è solo quando la vergogna si allontana dalla sua dimensione geografica e temporanea, e diventa vergogna «di appartenere all’umanità», totale e assoluta, che può trasformarsi in aperta indignazione, in azione viva e concreta.
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