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La bambina che cambiò la legge di New York. Una conversazione con Enrico Pellegrini



Le mille luci di New York sono oggi un po’ diverse da allora. Nell’America dei crac finanziari e della fabbrica hollywoodiana, tutto sembra inscalfibile fino a quando una persona, una persona qualunque, decide di lottare per riavere la propria vita. Nel romanzo Infinito (La nave di Teseo), firmato da Enrico Pellegrini, quella persona risponde al nome di Chris Alexander, giovane attore di origine italiana considerato la nuova sfiammante promessa del grande schermo, catturato nel perenne moto dell’insoddisfazione contemporanea tra i retaggi paterni del passato e i frantumi del presente, mentre si trova ad affrontare un divorzio da copertina e una lunga battaglia legale per poter vedere Penelope, la figlia di tre anni. Una piccola presenza, quella della bambina, immersa in un romanzo mosso dai ritmi della commedia che mostra senza veli le storture del sistema statunitense, osservate e piegate alle esigenze della fiction da Pellegrini, che a NY nella vita reale lavora come avvocato. Lo abbiamo incontrato per una conversazione sul suo nuovo romanzo.

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Infinito è il suo quarto lavoro, la nuova tappa di un percorso iniziato nel 1990 con la pubblicazione di Cuor di Panna. Come è arrivato a questo nuovo libro?
Questo romanzo si ispira a un sentimento, quello dell’amore. Un amore tra genitori e figli, un amore tra un uomo e una donna – anche se in USA non si potrebbe dire perché ci sono ben 47 generi di sessi diversi – e un amore rivoluzionario, che cambia la legge dello Stato di New York. Quando noi italiani pensiamo alla legge pensiamo alle leggi approvate dal Parlamento, ma in paesi come Inghilterra e Stati Uniti la legge è rappresentata dalle sentenze dei giudici. Questo significa che se una persona, come Chris il protagonista del libro, riesce a cambiare un precedente giurisprudenziale cambia anche la legge. Mi piace pensare che è proprio l’amore, un amore rivoluzionario se si può dire, che riesce a cambiare la legge dello Stato di NY. È bello perché faccio parte di quelli che pensano che il compito della scrittura e dell’arte sia anche quello di dare speranza. Pensare che ciascuno di noi, nelle proprie lotte quotidiane legate al lavoro, alle relazioni sentimentali o al rapporto con i propri figli, possa riuscire a cambiare in qualche modo le cose è un momento di speranza.

Chris, il protagonista del romanzo, è una giovane promessa di Hollywood che si trova a dover affrontare un divorzio rumoroso, che lo porterà a lottare contro mille ostacoli per riuscire a vedere Penelope, la sua bambina di tre anni. Quanto ha influito nella scrittura il suo mestiere di avvocato?
La vicenda che narro nel libro è, con tutti gli aggiustamenti del caso, basata su un’esperienza autobiografica. Fare parte del mondo degli avvocati di NY rende il libro una critica tanto più difficile quanto dolorosa: è una critica a se stessi, al proprio clan di appartenenza. Un clan pieno di falle. Ma le falle sono nel sistema. Giusto per fare un esempio, mentre in Italia vige il principio della soccombenza (chi perde il processo è costretto a pagare le spese di tutti), negli Stati Uniti il principio è quello opposto e ciascuna parte si paga le proprie spese sostenute in giudizio. Questo ha un effetto “sublime” per noi avvocati americani, ma problematico nel merito perché, mentre in Italia si responsabilizza la lite, in America non importa chi ha torto o ragione, perché l’importante è litigare. Questo forse spiega perché gli avvocati statunitensi siano potentissimi e possano letteralmente distruggere una famiglia. Aver vissuto questa esperienza in modo autobiografico mi ha permesso di capire come ci si sente “dall’altra parte” e scriverne un romanzo.

Negli aspetti problematici della legge americana emerge un aspetto di denuncia. In particolare la sua scrittura mette a fuoco la questione dei padri separati, ancora poco affrontata. Un argomento persino scandaloso.
Ho voluto mettere al centro una legge che esisteva all’interno di quella che consideriamo la prima democrazia del mondo. Una legge che penalizzava fortemente uno dei genitori favorendo l’altro; come scrivo tra le pagine del libro, qualsiasi principio che separa arbitrariamente i figli dai genitori può essere solo la prerogativa di un campo di sterminio. Leggiamo di questi casi tutti i giorni sui giornali, ma è inimmaginabile che ciò avvenga davanti a un giudice in uno stato avanzato come l’America. La verità è che, di fatto, nelle aule dei tribunali permane una protezione di interessi di parte, che sono enormi.

Interessi di parte che raramente sono raccontati in modo frontale come in queste pagine. Riflettendo sulla forma romanzo, e sul confine tra la realtà di ciò che ha vissuto e l’artificio finzionale della fiction narrativa. Quando al suo protagonista mandano a casa delle escort per incastrarlo, lei annota: «Sapeva di poter distinguere il confine tra realtà e finzione. Eppure in quel momento la realtà non esisteva».
C’è una frase di Boris Vian che amo molto: «Questa storia è vera, perché l’ho inventata io». Mi piacerebbe poter applicare questo principio al mio romanzo, ma purtroppo non è così. Ho deciso di introdurre dei forti tratti autobiografici: come Chris, anche io ho dovuto studiare infermieristica per poter ribaltare una legge ingiusta e, proprio come a lui, mi sono state mandate a casa delle escort per produrre false prove processuali contro di me in giudizio. Si dice che in qualche modo il post-modernismo sia finito con l’11 settembre, perché la forza della realtà diventa superiore alla fiction. In questo senso, Infinito appartiene davvero al post-post modernismo: quello che è successo nella realtà è addirittura più folle di quanto si possa inventare in un libro.

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Perché ha scelto la forma romanzesca per raccontare la sua vicenda?
Io so scrivere solo di narrativa, anche se da avvocato scrivo contratti lunghi come il Don Chisciotte. Penso alla prima lezione americana di Italo Calvino, che vedeva nella leggerezza e nella visione indiretta della vita tramite l’arte il miglior modo di osservare la realtà, come Teseo che uccide Medusa guardandola nel riflesso dello scudo. Solo così può evitare di farsi pietrificare. Io credo nel tentativo di sorridere anche di fronte alle vicissitudini più terribili della vita. Così è una grande sfida letteraria – secondo me nobile – quella di cercare di usare il genere della commedia per dei temi drammatici – è molto più facile ‘far piangere’. Qualcuno diceva che quando ridiamo è la parte migliore del nostro cervello che pensa.

Dunque “il politico” non si azzera nella finzione, ma anzi assume nuove sfumature e una nuova presa sul reale.
Infinito ha già portato ripercussioni sulla società reale, e da questo romanzo potrebbero nascere inchieste e reportage. In America alcuni dicono addirittura che da ciò che ho scritto potrebbe nascere un movimento politico, perché appunto nel libro Chris, il protagonista del romanzo, cambia la legge dello Stato di New York…

E, nel piano alternato tra la New York del 1996, nella quale Chris guarda alla figura paterna, e quella del 2010 nella quale la sua vita sembra lentamente sgretolarsi, il pensiero del lettore non può non percepire anche un film, una sorta di montaggio molto cinematografico.
Effettivamente questo libro è anche una sceneggiatura. Nel tempo ho lavorato parallelamente sui due linguaggi, esplorando il potere della parola e quello dell’immagine. In America molti scrittori prima di iniziare un nuovo lavoro stendono una outline, una sorta di sommario della storia: un processo sul quale io non mi trovo molto d’accordo, perché desidero che le cose nascano casualmente, con naturalezza, senza schemi razionali decisi a freddo. Qui la sceneggiatura è stata uno strumento alternativo di dialogo: ho scritto Infinito in inglese, in italiano, sotto forma di sceneggiatura, sotto forma di romanzo, un misto di generi che possiamo anche chiamare “pasticcio” (ride, NdR).

Trovo interessante che lei abbia accennato alla commistione tra italiano e inglese, perché nella sua scrittura si percepisce un italiano quasi modificato, pieno di influssi e distorsioni anglofone, quasi una lingua aliena. È la sua condizione?
In realtà è un effetto voluto, un italiano “modificato” apposta per cercare di rendere conto di un senso di estraneità (comune all’espatriata). I miei editor americani mi dicono spesso che l’inglese “non lo so ancora”, mentre gli editor italiani mi dicono che l’italiano “non lo so più”. È come se non avessi più una lingua mia, che in fondo è uno strumento di identità. Un po’ come Mastro-Don Gesualdo nel romanzo di Verga, che non viene più accettato dal popolo e non sarà mai accettato dall’aristocrazia siciliana, e per questo porta un nome ibrido che rappresenta la sua condizione. A “Multipli Forti”, il festival della letteratura italiana a New York, parlerò proprio di identità, e di perdita di identità, perché è proprio da questa crisi che possono nascere cose belle e inaspettate. Ho voluto esasperare quindi il linguaggio, e per questo ho molto discusso con gli editor. Ho lavorato sulla lingua, concependola in modo non ortodosso. Credo che anche questo faccia parte dello scrivere: cercare di spingere la lingua oltre i suoi limiti, arrivare a nuove creazioni. Il titolo stesso, Infinito, mi è stato suggerito da un’espressione inglese inventata da mia figlia, way past space, che appunto in inglese non vuole dire niente (da un punto di visto logico-sintattico, ma da un punto di vista evocativo, moltissimo). Un parola-concetto, “infinito”, che nel romanzo risponderà a una domanda importante.

Una domanda rivoluzionaria, anche. Così come l’amore che la pervade, districandosi tra ingiustizie, rivincite, sogni e delusioni della nostra epoca.
La centralità della parola “rivoluzionario” in questo romanzo l’ha notata per prima Elisabetta (Sgarbi, NdR), e trovo sia molto azzeccata. Per raggiungere l’infinito di cui parla Leopardi, per naufragare dolcemente in quel mare, occorre un sacrificio grandissimo, che in questa storia tocca a Penelope. Un gesto, quello di Penelope, che riunisce tutti in una situazione corale, come se li richiamasse a sé. Se c’è un aspetto che mi piace del libro è poter pensare che anche nei nostri momenti più bui ci può essere uno scatto, come se dalla sofferenza possa nascere qualcosa di inaspettato. Un qualcosa che non solo può cambiare il rapporto con le persone a cui vuoi bene, ma che addirittura arrivare a cambiare la legge di un Paese. E questo trovare speranza nella lotta è certamente di matrice “americana” ma anche estremamente moderno, e ci ricorda che ogni individuo, per quanto piccolo, può trasformare un po’ il mondo.

Un po’ come fa Penelope, che oppone alla brutalità del mondo la purezza dei suoi tre anni?
Questa bambina, con la sua sensibilità, evidenzia il limite della società contemporanea. Una società estremamente razionale, che cerca di sistematizzare tutto, con il rischio che si arrivi a scompensi enormi in cui si ottiene l’opposto della razionalità. Mi piace pensare a Penelope come a un sorriso, come alla meraviglia che una bambina riesce a dare alle cose. Con la sua fragilità, Penelope riuscirà davvero a cambiare i destini dei personaggi, dimostrando che l’approccio razionale della nostra società contemporanea ha dei limiti. È puro istinto il suo, quello di una bambina di tre anni, un essere umano piccolissimo che riesce a smuovere i grandi grattacieli di cemento.




In copertina: New York, Frank Winkler

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