Nel 1981 – racconta la storia – Alfredo Rampi cade nel pozzo di Vermicino e tutta l’Italia si trova ad assistere al primo dramma in diretta televisiva.
Negli stessi giorni – e da qui inizia la finzione – Francesco, che ha la stessa età di Alfredo, vede scomparire il migliore amico, Christian, lontano dai riflettori, e decide di tradire la promessa che gli ha fatto per supportare le ricerche.
Sono queste le due storie che si intrecciano nel bellissimo romanzo Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia, edito da TerraRossa Edizioni e scritto da Enrico Macioci, già autore di Terremoto (Terre di mezzo), La dissoluzione familiare (Indiana), Breve storia del talento e Lettera d’amore allo yeti (entrambi editi da Mondadori), e Tommaso e l’algebra del destino (SEM).
Giorgia Tribuiani ha intervistato per Limina l’autore.
Del tuo romanzo colpisce subito l’architettura: la narrazione è articolata su due tempi (il presente in cui il protagonista vive, che corrisponde ai giorni nostri, e il passato che ricorda, che ci porta agli inizi degli anni Ottanta) e su due linee narrative (la vicenda di Alfredo Rampi e quella personale di Francesco e Christian). Ne risulta un potente “gioco di specchi” dove i due tempi, così come i due archi narrativi, dialogano continuamente.
Avevi in mente fin dall’inizio questa articolata struttura?
Mi accorgo solo ora, leggendo la tua domanda, di quanto in effetti la struttura sia articolata; per cui la risposta è no, non avevo in mente una struttura del genere sin dall’inizio. Ciò che volevo era raccontare di Alfredo Rampi “indirettamente” ovvero obliquamente, e per farlo mi serviva inserire la sua storia dentro un’altra storia; quest’altra storia poi sarebbe stata finta, poiché doveva contenere quella vera di Alfredo, e fungere da “cuscinetto”, proteggermi da quella vampa di realtà. Sapevo che se avessi concentrato l’intero libro su Alfredo, il libro si sarebbe sfondato. La storia di Alfredo è reale, è celebre, è universale: pesa troppo. Inoltre non volevo trattare esplicitamente di Alfredo; pensavo che, come accade quando nella semioscurità si guarda di sbieco un oggetto, e lo si vede meglio che fissandolo dritto per dritto, così avrei ottenuto un effetto migliore collocando la vicenda di Alfredo a margine di una vicenda sia inventata, sia assai meno impattante.
Il romanzo ha tra i suoi protagonisti quella tivù del dolore che, probabilmente, ebbe la sua genesi anche nella tragedia di Alfredo Rampi. In un momento storico dove non solo la tivù ma anche la narrativa cede troppo spesso alla tentazione di mettere in scena e in prima linea il “fatto vero”, il “fatto privato”, tu fai una scelta di controtendenza: rinunci a scavare nel privato della famiglia Rampi (fermandoti ai fatti di cronaca) e, restituendo alla storia la sua dignità, scegli di indagarne la portata attraverso il punto di vista di Francesco e la sua storia di finzione.
Mi fa molto piacere che ti sia parso così. È la cosa cui tenevo di più, nel momento in cui ho deciso di tentare: non “sfruttare” il dolore della tragedia di Alfredo. Chi scrive si nutre spesso e volentieri di dolore, ma non c’è bisogno, credo, di sconfinare nella gratuità; e raccontare per filo e per segno di Alfredo, della sua famiglia e del suo dramma esulava dalle mie capacità di narrare in maniera non gratuita. Uno dei vantaggi di una certa maturità riguarda la maggiore conoscenza dei propri punti di forza e dei propri punti di debolezza, e se conoscevo la suddetta debolezza, conoscevo anche la possibilità da parte mia di narrare di Alfredo, di ciò che la sua caduta nel pozzo rappresentò per un’intera nazione e per intere generazioni, narrando d’altro. Ecco dunque Francesco, ecco il suo amico Christian Creoli, ecco la scomparsa di Christian, ecco la curiosa coincidenza dei tempi fra la scomparsa di Christian e l’agonia di Alfredo – tutto ciò che poi, in quel fluire misterioso ed efficace che talvolta prende la scrittura, mi permette di arrivare a un dato simbolismo, a una data restituzione di “realtà” nella “finzione” (uso le virgolette perché ritengo che termini del genere non posseggano, in letteratura, una connotazione assoluta, bensì che scolorino l’uno nell’altro).
A proposito della scelta di passare attraverso la finzione per raccontare con più efficacia – e con più profondità – una vicenda di matrice reale, hai affermato in una recente intervista: «mentendo ci si avvicina di più alla verità». Questo tuo pensiero mi ha fatto pensare alla frase che l’attore Jim Carrey ha fatto stampare sulla sua autobiografia “finzionale”: «None of this is real and all of it is true». Che ne pensi?
Sono d’accordo con Carrey. Credo che la storia sia una specie di succhiello: la si pianta in profondità e si tira fuori una certa percentuale di realtà. Più la storia è forte, più il succhiello è profondo, più realtà viene fuori. Paradossalmente, quindi, più la storia è inventata (cioè non basata su fatti veri) più realtà sarà in grado di restituirci. Può sembrare strano, o peggio ancora “letterario”, questo discorso, ma è il medesimo discorso per cui nessun racconto fedele a un qualsiasi episodio davvero accaduto di alienazione, e nessun saggio sull’alienazione, avranno mai l’impatto che ha su di noi La metamorfosi di Kafka. Un evento impossibile come la trasformazione di Gregor Samsa ci riguarda più da vicino di un fatto vero, perché la trasformazione di Samsa è ciò che sta al cuore di un fatto vero, è il suo significato ovvero il suo senso più autentico – la sua direzione esistenziale. Non serve essere uno scarafaggio per sentirsi uno scarafaggio, e ciascuno di noi lo sa fin troppo bene sulla propria pelle (non mi sovviene una storia più “fisica” della fiaba nera di Kafka); una vicenda frutto dell’immaginazione ci consente di dirlo fingendo che non sia vero – e fingendo che non sia una cosa vera, possiamo dire anche la più terribile delle cose.
Nel tuo romanzo trovo che la simbologia sia molto potente, a partire dal titolo: «Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia» è la frase che Alfredo Rampi pronunciò dopo ore di sofferenza, mentre i soccorritori tentavano invano di salvarlo. Ma «sfondate la porta ed entrate nella stanza buia» suona anche come un grido universale. Lavori fin dalla progettazione sulla simbologia o cerchi rimandi ed echi dopo la stesura del romanzo?
Non lavoro mai a tavolino. Parto sempre da un’immagine, un’idea o anche solo una suggestione che mi sembra valgano il rischio – enorme – di scrivere un racconto o un romanzo. Man mano che il lavoro prende forma, prendono forma anche quelle che King, in On writing, chiama con felice espressione le “risonanze”: i conti tornano, gli echi si rispondono, il senso di ciò che sto facendo affiora. È un momento splendido, forse il più bello che la narrativa sa regalarmi. Poiché amo la poesia, e poiché tendo a scrivere su un piano inclinato che dalla realtà scivola verso il trascendente, nei miei libri c’è sempre una cifra simbolica abbastanza forte. Non lo faccio apposta, è un mio bisogno inconscio. È come se la “realtà reale” non mi bastasse. La frase di Alfredo, che ho calcato per il titolo, in tal senso mi sembrava perfetta: riassume sia la condizione del povero bimbo in fondo al pozzo, sia la condizione umana sulla Terra. Tutti infatti aspettiamo, anche contro ogni ragionevolezza e anche senza rendercene conto, che prima o dopo una porta si socchiuda e che un raggio di luce illumini la stanza buia nella quale ci sentiamo persi.
Ci sono due riflessioni, in particolare, che legano questo tuo romanzo al precedente, Tommaso e l’algebra del destino. La prima riguarda la tecnologia. Nella storia di Tommaso abbiamo un bambino di cinque anni che si ritrova abbandonato in auto prigioniero della cintura di sicurezza; in quella di Alfredo, Francesco e Christian, invece, la televisione, che voleva raccontare un fatto di vita, si trova a mostrare a tutti un fatto di morte. Credi che uno dei problemi del nostro rapporto con la tecnologia, che in quanto strumento dovrebbe essere appunto neutra, sia il mancato senso di misura?
Assolutamente. La tecnologia è uno strumento meraviglioso, il più mirabile forse mai inventato dall’uomo; e perciò è anche il più difficile da gestire. Come ci insegna Shoshana Zuboff nel suo grande libro Il capitalismo della sorveglianza, non è vero infatti che la tecnologia si dirige per propria natura verso una certa forma di società; è sempre la volontà umana che determina la direzione. È chiaro che mezzi di controllo potenti come quelli odierni possono fare miracoli nel bene e nel male; la mia sensazione è che vengano usati più a servizio del male che del bene, ed è un peccato, ed è anche un rischio immenso – un rischio che potrebbe significare la nostra estinzione. Ciò che è in ballo è ciò che già nel 1974 preconizzò – e si augurò – Skinner, il grande psicologo comportamentista nonché guru dei santoni della Silicon Valley: ridurre l’io umano – questa entità misteriosa e libera – a un flusso di dati gestibile da un algoritmo, di modo che non combini danni e sia più “felice” (Huxley ci ha detto cose molto interessanti al riguardo, sia nella sua narrativa che nella sua saggistica). In altri termini, è di nuovo la parabola del Grande Inquisitore che torna a interrogarci: vogliamo la libertà, col peso che essa comporta, o vogliamo una schiavitù sempre più automatica e inconsapevole, e di seguito la distruzione dell’umano nella sua essenza?
La seconda riflessione riguarda invece l’infanzia. Fuggendo alla retorica del “paradiso perduto” il tuo racconto dell’infanzia non è mai edulcorato e l’attenzione è posta soprattutto sulle relazioni: i genitori non ascoltano i bambini, non li vedono e, soprattutto – penso a Francesco e al suo disperato tentativo di spostare le ricerche di Christian su quella dolina che credevano una “base spaziale” – non gli credono.
L’infanzia è un periodo drammatico. Tutti lo sono, ma l’infanzia e l’adolescenza forse di più. Non a caso, Flannery O’Connor diceva che se uno è riuscito a sopravvivere all’infanzia e all’adolescenza, poi ha materiale sufficiente per scrivere un’intera vita. Durante l’infanzia si stabiliscono e si azionano quei codici di comportamento, per lo più inconsci, che ci dirigeranno da adulti, che condizioneranno le nostre scelte sentimentali e lavorative e perfino i desideri che crediamo essere nostri, e che spesso sono viceversa indotti. Per capire questo, scioglierlo e liberarsene occorre un lungo lavoro, che la scrittura può accelerare e chiarire. Mentre si scrive infatti ci si affida a una parte preconscia e prerazionale che la sa più lunga della nostra parte razionale, perché va a contatto direttamente con le nostre emozioni, le disseppellisce, dà loro voce. Questa voce, spesso, sarà un pianto: ottimo, lasciamola piangere. Gli adulti appartengono a un’altra specie rispetto ai bambini: hanno dimenticato, ma soprattutto hanno voluto dimenticare. Nessuno meglio di Stephen King ha rappresentato questa dicotomia: penso soprattutto a Il corpo e a It, a mio avviso il miglior romanzo sull’infanzia e la preadolescenza mai scritto.
Stai già lavorando a qualcosa di nuovo? Tornerai ancora su questi temi o c’è qualcos’altro, adesso, che genera in te l’urgenza di raccontare?
Lavoro sempre a qualcosa di nuovo o di vecchio che però, essendo inedito, è come… nuovo. Al momento sto cercando di completare un miniciclo di romanzi sull’infanzia/adolescenza (rieccoci!), dopo di che vorrei passare a narrare l’età adulta (ho già una prima stesura di romanzo che, come tutte le mie prime stesure, è orribile). Immagino che i miei conti coi bambini stiano per terminare, e che urgano i temi della maturità. Tuttavia non posso mai sapere quale idea prevarrà sulle altre, quale idea mi costringerà a mettermi al pc e scrivere: è un fenomeno affascinante, più simile a un dettato esterno che a un fenomeno endogeno. Oppure potrebbe accadere che non mi arrivi più nessun dettato. Mi auguro di no, ma in tal caso smetterei di scrivere. Uno arriva a un punto in cui potrebbe campare di rendita, con quel minimo di tecnica che ha messo da parte; però sarebbe disonesto verso me stesso e verso i miei venticinque lettori.
Immagine di copertina: TerraRossa Edizioni