Lo scorso 24 ottobre, per TerraRossa Edizioni, è arrivato in libreria nella sua terza edizione il romanzo Il volo dell’occasione dello scrittore Filippo Tuena, già edito da Longanesi nel 1994 e da Fazi a dieci anni di distanza. Un “ritorno” che appare quasi simbolico alla luce dei fatti che il libro racconta e che così tanto hanno a che fare con ciclicità e ripetizione: nella vicenda ci imbattiamo infatti nei tentativi di uno scrittore di ricostruire la storia di un triangolo amoroso, quello tra la seducente Blanche, il misterioso Renant e Altay, e poi di entrare a farne parte, trovandosi tuttavia invischiato in una storia di fantasmi che sembra riproporsi all’infinito.
Emerge, nella vicenda narrata, il desiderio tutto umano di rivivere gli eventi, di tornare a un momento precedente. Coloro che sono innamorati del passato «non sanno che nulla è ripetibile, nulla ritorna. Perdiamo tutto, né ripossedere qualcosa che abbiamo amato ci restituisce il tempo in cui abbiamo amato». D’altra parte, forse, se pure riuscissimo a rivivere un momento già vissuto, noteremmo lo scarto con il ricordo che ne abbiamo, modificato – come Proust suggerisce – dal filtro della memoria: che ne pensi?
Il romanzo nasce in un momento di forte compressione. L’editore mi aveva appena bocciato un libro a poche settimane dalla sua uscita. Voleva che riscrivessi il finale. Ci provai ma non riuscivo proprio a riannodare quel finale alla narrazione. Così sull’onda di un sentimento di rivalsa ma anche consapevole d’essere di fronte a un possibile fallimento definitivo, scrissi un nuovo libro, molto letterario, ricco di citazioni, ma anche profondamente intimo, che descriveva perfettamente la sensazione che provavo in quei tempi: d’essere sul punto di perdere l’occasione, di non essere capace di recuperarla. Pensai che fosse più interessante collegare quel sentimento alla passione d’amore che non alle frustrazioni di uno scrittore e montai il nuovo libro molto in fretta. Il tema della memoria è primario in quelle pagine. Sono perfettamente consapevole che la memoria non documenta la realtà degli eventi trascorsi, ma la loro persistenza e le modifiche dettate dagli anni che scorrono. In questo senso, la ciclicità degli eventi vissuti dai fantasmi risolveva la questione: vivono in un continuo presente, totalmente inconsapevoli. Solo il narratore percepisce lo scorrere del tempo. Anzi, addirittura chiude il libro ribadendo questo concetto. C’è un altro aspetto riguardo alla memoria nella narrativa che mi sembra importante sottolineare. Lo scrittore è uno che ricorda. E tutto quel che racconta risponde ai moti della memoria, più malinconici, e non a quelli rigidi del resoconto, della cronaca. Torneremo poi alla questione dell’affettività nella narrativa. Ma è un’affettività che è avvolta dalle nebbie della memoria.
La memoria, del resto, non è l’unico elemento in grado di deformare la realtà dei fatti. Il protagonista stesso, nel volerli esporre all’amico commissario Adolphe, riflette così: «avrebbe potuto pensare che gli andavo a raccontare la trama di un mio racconto. Che, da narratore, non mi limitavo a esporre i fatti, ma ci ricamavo sopra, costruivo la mia bella simmetria affabulatoria, correggevo la realtà». Mi pare un pensiero molto interessante: se già tutti noi, nel raccontare la realtà, finiamo in qualche modo per modificarla, per “spostarla”, quanto possiamo credere al racconto di uno scrittore, consapevole del proprio sguardo e degli effetti che una narrazione deve avere su chi la accoglie?
Il narratore è un mentitore. Credo che sia un concetto espresso da Calvino. Se non lo è gli si adatta perfettamente e si adatta perfettamente a tutti coloro che scrivono narrativa, soprattutto se narrativa d’invenzione. Consideriamo un libro come questo: nasce con un’idea ben precisa ma nel mentre che lo scrittore la mette sulla pagina accadono alcuni accidenti che per forza di cose la modificano. Innanzitutto la fedeltà allo stile. Non sempre quel che si scrive è espressivo quanto si vorrebbe. Se non si trova l’errore, se non si risolve la questione, allora è necessario tagliare quella scena che suona falsa e provare a sostituirla con qualcosa di nuovo che, a causa di una magia raramente esplicabile, suona meglio. E dunque c’è una fedeltà all’idea originaria di un testo che soccombe alla fedeltà allo stile. Quando le parole suonano vuote, inespressive, ottuse c’è un errore che va risolto se vuoi col mestiere, ma soprattutto con lo stile, organizzando meglio la scena, aggiungendo, levando, modificando. Ed è qui che il narratore si trasforma in un mentitore. Quanto più il testo funziona narrativamente tanto più alto c’è il rischio che il narratore l’abbia modificato rispetto alla realtà degli eventi o rispetto alla prima idea che sembrava funzionare perfettamente e che alla prova dei fatti s’è rivelata deludente.
A proposito di narratori, il personaggio principale del tuo romanzo risulta uno scrittore tutt’altro che passivo: se in un primo momento si butta anima e corpo nella ricerca di una storia («quando si cerca qualcosa che non si sa dove sia, è da qui che bisogna incominciare. È questo il punto d’inizio di ogni storia»), una volta venuto a conoscenza del triangolo amoroso decide, appunto, di intervenire nella storia stessa, di farsi a sua volta protagonista. Mi pare una bellissima metafora dello scrivere: l’autore studia, fa appunto ricerca, conosce i propri personaggi e si mette al loro servizio, ma a un certo punto arriva il momento in cui far parlare la storia e “scomparire”.
È un po’ il proseguo di quanto dicevo sopra. Da una posizione di osservatore estraneo ai fatti spesso il narratore finisce per essere invece determinante nel loro svolgimento e nella loro conclusione. L’esperienza di libri successivi mi porta ad affermare che la necessità della scrittura, la vera motivazione che spinge un autore a scrivere si rivela in corso d’opera. Il libro svela il suo perché, la sua origine più profonda. Di solito scrivo la parte finale dei miei libri in una sorta di scrittura automatica. Conosco gli antefatti, so dove i personaggi del libro mi hanno condotto; per contro non so dove li condurrò io. Lascio correre la scrittura, lascio fluire il pensiero. Quasi sempre, o addirittura sempre, arrivo al finale con lo sguardo vergine di chi osserva piuttosto che con quello determinato di chi già sa. È il libro che si disvela, io non faccio altro che assecondarlo.
In un’intervista per Pangea su La voce della Sibilla hai affermato che, ai fini dell’opera, «occorre che lo scrittore provi desiderio per qualcosa che non può possedere». Su e-periodica, a una domanda sulla tua scrittura, hai risposto: «m’innamoro di qualcosa che mi è lontano e cerco di conquistarlo, cerco di sedurlo per possederlo». Possiamo vedere lo scrittore protagonista di questo romanzo come la trasfigurazione di questo innamoramento e desiderio di possesso?
Come dicevo prima la questione affettiva è un motore primario nella scrittura. Credo fermamente che ogni testo significativo si basi su due pilastri equamente importanti: passione e stile. La passione serve per innamorarsi di una storia, per desiderare di viverla o riviverla compiutamente e totalmente; lo stile è necessario per rendere quella storia credibile, per provare a coinvolgere il lettore nelle medesime passioni che muovono lo scrittore.
Molto interessante, oltre al ruolo dello scrittore, è quello di chi accoglie l’opera. In un passaggio del tuo romanzo presenti la ripetizione del triangolo amoroso come quella di un’opera musicale, dove se l’autore mette in scena delle variazioni, lo spettatore è chiamato a mettere in scena invece l’arte del riconoscimento. La parte svolta da chi assiste all’opera, che si tratti appunto di spettatore o di lettore, è dunque una parte attiva. In questo senso mi pare si muovano anche gli “indizi” che troviamo all’interno del romanzo, come la presenza di muffa (che mi ha ricordato il romanzo Ubik) o il gioco di parole con il nome di Renant-revenant.
I libri si fanno in due. Uno li scrive, uno li legge. Il riconoscimento del lettore negli eventi narrati in un libro determina il successo della lettura. Ed è sempre un successo che ha come base il coinvolgimento del lettore. ‘Questa cosa mi è accaduta. Ho avuto gli stessi pensieri e le stesse emozioni. Sto leggendo qualcosa che attiene alla mia memoria’. Quando un lettore interrompe la lettura e formula alcune di queste osservazioni, direi che l’alchimia tra scrittura e lettura s’è perfettamente risolta. A volte, come in questo caso, lo scrittore utilizza un panorama letterario che il lettore conosce, a volte preferisce affabulare in maniera più libera e lasciare che il lettore segua il suo percorso semplicemente curioso di sapere dove la storia lo condurrà. Non c’è una formula specifica, salvo che tutto quel che è ben scritto diventa credibile. Ancora una volta è lo stile a determinare l’efficacia del racconto. Non ho letto quel libro di Dick, ma conosco bene il lavoro che fa con la memoria. Quanto al calembour Renant-revenant, beh, era troppo ghiotto per non condividerlo col lettore.
Letteratura, musica, ma anche teatro. L’io narrante racconta a un certo punto, di fronte alla ripetizione di uno speciale evento: «assistetti a una sorta di replica della scenata del Flore», e non a caso i tre personaggi di Blanche, Renant e Altay appaiono come figure – o burattini? – chiamati in eterno ad andare in scena, magari improvvisando, ma trovandosi sempre di fronte allo stesso tragico finale. Anche tu hai pensato al teatro – o al teatro di burattini – mentre lavoravi a quest’opera?
Da ragazzo mi sono dedicato al teatro, al teatro per bambini e anche al teatro off. La regola principale qualunque sia il genere di teatro è non permettere allo spettatore di intuire la battuta successiva. Il segreto è mantenere desta l’attenzione. Questa è una regola che vale anche per la narrativa. Forse persino di più perché l’attività solitaria del lettore permette pause, distrazioni, disattenzioni. L’esperienza teatrale mi ha insegnato questo. Nello specifico, i tre fantasmi e il narratore vivono due dimensioni separate. Da un lato dici bene burattini destinati a ripetere all’infinito una situazione, un dramma; dall’altro uno spettatore che SA come il dramma finirà e non può intervenire per evitarlo. La tensione che si crea tra queste due situazioni dà origine a quella che Spagnol definì come ‘macchinetta’ che funzionava.