Ca’ Labia, Cavarzere, Polesine, da qui, dal mondo contadino, arcaico, sommerso dall’alluvione del 1951 e poi salvato, viene Francesco Permunian: da quella realtà segnata dalla miseria, dalla ricostruzione e dalla lenta e irrefrenabile “estinzione” nasce – e di essa si nutre – la sua letteratura, il suo mondo beffardamente crudele e grottesco, a tratti aspro e asciutto, a tratti lirico. Per arrivare al cuore di un’intera opera bisogna scavare nel profondo, giungere alle origini amare della vita stessa che l’ha concepita, e così, tra nostalgica memoria e infantile rimembranza che riaffiora raggiunta la maturità, Permunian torna alla sua terra, ai suoi demoni infantili con Calabiani. Antologia privata dei miei demoni infantili edito da Oligo Editore.
Con Calabiani torna a dar voce alle anime del passato, del suo, ma anche a quelle di una realtà contadina che si è estinta e a cui oggi, forse, solo la letteratura può ancora voler dare spazio…
Io appartengo a quell’ultimo lembo di mantello contadino che era esistito per secoli, a partire dal Medioevo e che l’alluvione del Polesine, la crisi delle campagne e l’industrializzazione hanno definitivamente lacerato. Le persone hanno preferito spostarsi a lavorare nelle città, io invece sono rimasto insieme alla mia famiglia e quello è stato l’inizio di una solitudine progressiva che hanno generato in me i campi sterminati e i lunghi silenzi. Mi hanno marchiato. Da bambino non dormivo, prestavo sempre attenzione ai rumori, a quelli del fiume, a quelli del granaio; si sono sedimentati in me e sono diventati mostri e mostriciattoli che mi abitavano e incalzavano la mia fantasia. Davanti alla miseria a cui assistevo quotidianamente, diventavano l’unica scappatoia verso un mondo parallelo che io stesso creavo. Io vengo da lì, da una realtà in cui non c’era nulla, neppure una biblioteca, un medico, spesso neppure una levatrice. Questo è il mio DNA ed è quindi logico che torni a galla e che io senta il bisogno di dargli voce. Non posso dunque inventarmi di essere uno scrittore che non sono, romano, milanese o comunque cittadino. Sarebbe tradire le mie radici.
Eppure, la sua scrittura non è fatta solamente del suo DNA…
Crescendo, lasciando la famiglia, iniziando a vivere seguendo degli ideali qualcosa è cambiato. Nel momento in cui gli ideali del Sessantotto, in cui credevo, si sono infranti, tutto si è accartocciato su se stesso e così è nata la visionarietà grottesca dei miei romanzi. Il grottesco è la diretta conseguenza del lirico che, come la nave di Majakovskij, si scontra contro la realtà. Ed è anche un addio alla giovinezza. Posso spiegarlo anche facendo un esempio che non riguarda me, ma Pasolini – su cui sto lavorando per una pubblicazione che uscirà a ridosso della data della sua morte per Ponte alle Grazie. Quando sottoponevo le mie poesie a Andrea Zanzotto, durante una delle nostre conversazioni gli chiesi cosa pensasse dell’opera di Pier Paolo Pasolini, con cui, tra l’altro, era in ottimi rapporti. Mi rispose in dialetto veneto e mi disse: «Sono due le cose che amo di Pasolini: il suo essere un intellettuale corsaro e Poesie a Casarsa. Quelle sue prime poesie le ha scritte come un angelo dalle ali bruciate.» Con queste parole Zanzotto voleva dire che Pasolini aveva scritto le sue prime poesie con ancora le ali dell’infanzia, poi bruciate dall’avanzare delle contraddizioni del mondo adulto, presente». Si tratta di una frase che mi accompagna da allora e che condivido. L’angelo dalle ali bruciate è il Pasolini che piace a chi sente di dover preservare l’infanzia e il suo ricordo.
Con queste due immagini ha condensato l’essenza di uno degli argomenti che più la interessano. Quali sono gli altri?
Sono solo due, in effetti. La prima infanzia, appunto, un sacco amniotico in cui tutto si tiene e tutte le emozioni si dilatano. E l’estrema vecchiaia., quando torni bambino, ma con le rughe, con l’infanzia e la giovinezza sfregiate nel volto e nell’anima. Il vecchio non è nient’altro che un bambino idiota e ridicolo, mostruoso e aberrante. Se penso a maestri, a lumi che possono avermi aiutato a indagare questi poli opposti, penso a Juan Rulfo, malinconico e visionario, per l’infanzia e a Thomas Bernhard, rabbioso e crudele, per la vecchiaia.
Calabiani, in quella che è la ricostruzione della giovinezza perduta e lontana, guardata con nostalgia e tenerezza, porta con sé echi proustiani. Dove emergono maggiormente?
Nella Recherche il narratore, cioè il giovane Proust, mitizza il fiume, la Vivonne, che scorre vicino alla casa della zia. Circondato da fiori, biancospini, ninfee esprime grandiosità. Quando, nella seconda parte dell’opera, i personaggi, incanutiti e innevati dalla vecchiaia, sono delusi dalla dipartita della Belle Epoque, Proust torna sulle rive della Vivonne e si rende conto che era un fiumiciattolo, non più grande di un lavatoio quadrato. Il simbolismo è evidente: il fiume della vita, rigoglioso in giovinezza, è ridotto a un nonnulla con la vecchiaia. Per me è la stessa cosa con il Tartaro, il canale dal nome altisonante che attraversa Ca’ Labia, nato dalle opere idrauliche messe a punto dai veneziani per contenere il corso dell’Adige.
Ecco, Ca’ Labia, per l’appunto. Ci racconta la sua storia?
Nel Settecento era tutta palude, finché quei terreni non vennero acquistati dai Conti Labia, che li bonificarono. Dalle famiglie contadine che li si trasferirono per coltivare quei possedimenti discendono i nonni dei nonni, fino ad arrivare ai miei genitori. A Ca’ Labia nel mese di agosto si teneva la Sagra dell’Assunta, un evento importante, imperdibile per i calabiani. Tra i tanti documenti d’epoca che ho visionato a Rovigo, ho ritrovato un manifesto originale del 1899 che è diventato la copertina del libro. Attorno a quella locandina e a un disegno del 1906 di Angelo Baldi che ritrae una specie di albero genealogico di tutti gli abitanti di Ca’ Labia, ha preso vita il mio lavoro che è qualcosa di indefinibile, composito. C’è prosa, poesia, fotografie. Si potrebbe chiamare zibaldone, o forse prosimetro. Rolando Damiani, che ne ha scritto l’introduzione, l’ha definito “un libro di ore”, quasi come fosse un vino o un liquore d’annata da condividere, sottovoce, solo con gli amici. Insomma è un testo spurio, difficile anche da proporre a un editore, e io sono molto grato a Oligo che ha voluto pubblicarlo.
Utilizzerà nuovamente i documenti d’epoca conservati a Rovigo?
Non nascondo che mi piacerebbe organizzare una mostra che racconti Cavarzere e Ca’ Labia, ma anche questa, sarebbe per pochi, solo per coloro che ci vivono oggi o che ne conservano la memoria.