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Incorreggibili. Quattro autrici consigliere e maestre

Elfriede Jelinek, Fleur Jaeggy, Clarice Lispector e Jane Bowles accompagnano Paola Moretti in un viaggio alla ricerca del sé

Le persone a cui diamo il permesso di accompagnarci durante i momenti importanti della nostra vita dicono molto non solo su chi siamo ma anche su dove vogliamo arrivare. Le strategie di sopravvivenza, se siamo impegnate a ricostruirci una vita, possono essere lampi di genio o buchi nell’acqua che potenzialmente ci possono affondare ancora di più. Come accompagnatrici di un anno segnato dalle perdite e dal lutto, Paola Moretti ha scelto quattro autrici della letteratura europea contemporanea: Elfriede Jelinek, Fleur Jaeggy, Clarice Lispector e Jane Bowles. I volti di queste quattro autrici sono minuziosamente descritti nelle pagine introduttive del testo e a poche settimane dall’uscita di Incorreggibili (66thand2nd) sul profilo Instagram di Moretti di tanto in tanto compare una storia con un segnalibro su cui le teste delle quattro sono immortalate una sotto l’altra come le foto sbiadite che escono dalla bocchetta di distributori vintage in cui ci siamo fatte le foto in certi sabato pomeriggi in libera uscita al liceo.

Incorreggibili è un testo sui generis; un testo che attraverso la teoria letteraria indaga un canale per arrivare a parlare di lutto e di perdita. Con maestria Moretti non si abbandona mai alla compassione di se stessa, c’è un grande controllo sui suoi sentimenti e anzi sembra quasi che l’autrice stessa li metta a fuoco pagina dopo pagina. In questo modo chi legge è compartecipe, e spesso si ha la sensazione di scoprire la direzione di un pensiero proprio in contemporanea con l’autrice. I contorni della perdita e del lutto, per esempio, non sono chiari fin dalle prime pagine. Inizialmente a emergere è una sensazione più che una direzione. Sentiamo il malessere che da interiore si fa pure fisico – e infatti la prima scena del libro si apre con Moretti a letto con l’influenza nella sua nuova casa. Dove ci porterà questa malattia, ci chiediamo? Di che cosa è sintomo? L’entità delle perdite si chiarirà a mano a mano, con i tempi tirannici gestiti da Moretti. È impossibile andare avanti prima di lei per carpire anche solo vagamente qual è la direzione del testo: Moretti ha molto chiaro in testa che cosa vuole o non vuole dirci. Un padre, un’amica e un compagno, e poi tutta una serie di oggetti sono andati perduti; sono scomparsi dal mondo del reale, in un modo più o meno definitivo.

Da dove ripartire, allora?

Dalla scelta delle persone che vogliamo tenere accanto in un momento di scoperta: le quattro autrici incorreggibili del titolo.

«(Questo libro) l’ho scritto alla ricerca di conforto, protezione, consiglio; mi sono rivolta a loro, che sono sole come poche, sole come tutti, uniche e isolate. Sulla mia scrivania le loro foto sono disposte in fila – ritratti, santini, immagini votive che fisso nel momento del bisogno».

Nello sport dalle maestre si copia la tecnica e la tattica. La tecnica riguarda un movimento particolarmente vincente, che eseguito alla perfezione diventa imbattibile. La tattica invece è una visione di mondo, una strategia o uno schema di gioco con cui uscire dalle trappole intessute dall’avversaria. È la combinazione di questi due elementi che porta l’atleta alla fine della gara a essere in un posto distante da dove si trovava all’inizio. Non è una questione di vittoria o sconfitta, ma più che altro di quali strumenti ci si porta dietro alla fine di una certa esperienza. Le vicende vanno avanti, e la saggezza è anche aver ben chiaro in testa che non si può ricominciare a costruire qualcosa sempre dal capo.

Moretti
Elfriede Jelinek

Allo stesso modo le scrittrici che Moretti si è scelta come consigliere fidate per tornare a essere sé stessa, non sono solo compagne di un viaggio che l’hanno portata a spostarsi fisicamente e metaforicamente dal luoghi in cui aveva covato il dolore, ma sono soprattutto maestre a cui guardare sul bordo della scrivania, e che in quanto tali impartiscono insegnamenti che l’autrice vorrebbe fare suoi, uno dopo l’altro, come scrittrice.

E infatti Paola Moretti dichiara:

«Da Fleur Jaeggy ho cercato di imparare la comprensione, sia sintattica che dei personaggi [..].
Da lei (Lispector) vorrei imparare la forza evocativa, l’abilità di far trasparire emozioni così concrete anche da trame esili e frasi nebulose [..]. Da Jane Bowles vorrei imparare i salti quantici da un argomento all’altro, capire come creare l’inaspettato senza fanfara e apprendere l’arte della sedimentazione, perché i racconti ti restano attaccati addosso, ci pensi e ci ripensi e ogni volta ne capisci un pezzetto in più».

Moretti
Fleur Jaeggy

Del resto Moretti prima di mettersi alla scrivania ha avuto un’intuizione: Jelinek, Jaeggy, Lispector e Bowles si sono sentite come lei molto prima di lei.

«Ho cercato di scrivere in un certo modo, senza lasciare che il personale percolasse al di là del mio controllo, mantenendo una relativa distanza, un po’ di autorevolezza seppur tentando di far trasparire il mio coinvolgimento per il tema, per le protagoniste. Ci ero anche riuscita, il primo capitolo della prima stesura era di una freddezza quasi accademica e io non c’ero. Ero nascosta, riluttante, reticente . Andando avanti però sono venuta fuori a poco a poco […]. La loro poetica è l’espressione artistica delle mie maggiori preoccupazioni. Probabilmente le nostre maggiori preoccupazioni erano le stesse. Angosce che ci accomunavano. O quantomeno domande. Seguendo la loro esperienza speravo di tracciare un percorso anche per me».

Moretti
Clarice Lispector

Moretti conosce alla perfezione le angosce e le preoccupazioni delle quattro autrici perché le ha lette fino allo sfinimento, le ha sottolineate, analizzate, ne ha messo in collegamento le biografie con i testi da loro scritti alla ricerca di un filo conduttore che ne raccontasse non solo la poetica, ma anche la vita. È l’ossessione con cui tornano a elaborare e rielaborare argomenti e tematiche che suggerisce a Moretti che anche loro sono passate da certi stati d’animo. Imparare i loro schemi di gioco per uscirne (ma poi, ne saranno mai uscite davvero?) comporta smontare trame di romanzi e dettagli di racconti in maniera filologica e capire i meccanismi narrativi, gli snodi dei dialoghi. Del resto Moretti si riconosce senza remore il suo ruolo di scrittrice, e ogni scrittrice sa che dietro la finzione, anche la più pura e frutto della fantasia, si nasconde sempre anche solo un alito di ispirazione alla propria situazione esistenziale.

Di queste autrici poi Moretti conosce anche le lingue madri, una via di accesso privilegiata che si collega ad una parlata più intima, non filtrata dalle traduzioni. Non importa quanto si è bravi a tradurre, ma nel passaggio fra una lingua e l’altra si perde sempre e inesorabilmente qualcosa. Non per forza in termini di significato, ma in termini di scelte d’espressione sì, e quindi in termini di gusto, e anche di sentimento. E visto che il rapporto con queste autrici è perlopiù intimo, un dialogo fra maestre e allieva, la scelta di andare a cercarle nelle loro lingue originali, avendone la possibilità di farlo, è definitiva. Come in un Erasmus della scrittura, Moretti è andata in Portogallo per imparare a leggere Lispector, in Inghilterra per leggere Bowles, in Germania per leggere Jelinek, mentre Jaeggy l’ha incontrata a metà strada fra il tedesco e l’italiano. Ed è attraversando questi luoghi, seguendo Moretti nei suoi viaggi che l’hanno portata in Portogallo oppure a Berlino che, con il pretesto di passare da un idioma, finalmente abbiamo un’apertura sulla sua vita privata e su quello che l’autrice ha perso.

Moretti
Jane Bowles

La messa a fuoco del personale di Paola Moretti avviene a singhiozzi, in quanto lettrice è obbligatorio mettersi nello stato d’animo di accettare sprazzi di confessioni reticenti. Non c’è niente di male, perché poi Moretti ha la capacità di mettere tante sensazioni in queste immagini. E forse è proprio il loro essere laconiche, mutilate, abituati come siamo ormai a leggere tutti i fatti dei nostri scrittori e scrittrici preferite, a rendere queste confessioni come singhiozzi di verità che tutta insieme è troppo persino da condividere.

«Ho ritrovato un vecchio messaggio a un’amica greca a cui chiedevo consigli per quando sarei venuta (ad Atene) con il mio compagno. Quel viaggio non lo abbiamo mai fatto, non voleva venire in un posto ‘simile alla città in cui vive’. Sto infrangendo una promessa, mi aveva chiesto di non scrivere mai di lui. Ma non so davvero come si fa, a scriverne, dovrei renderlo un personaggio ed è quello che sto cercando di evitare, non voglio trasformarlo in un’immagine della mia mente, preferisco lasciarlo bello e reale come me. E poi per farlo dovrei allontanarmene, ed è proprio quello che cerco di evitare».

A fronte di un’analisi precisa della poetica delle autrici e del metodo filologico con cui Moretti ricerca le radici delle tematiche trattate al di dentro della loro vita privata e secolare, la sua voce personale invece emerge sul pelo dell’acqua timidamente e proprio quando sembra che stia per schiudersi al racconto intimo, ecco che riscompare verso il fondo buio e torna a nascondersi dietro le ombre grandi delle sue maestre. Eppure è quando Moretti si apre al racconto di come si sente che le pagine di teoria letteraria che abbiamo letto sulle quattro autrici tornano ad avere un senso profondo e intimo che ha il tono della confessione. Vorrei poter trascrivere e citare tutto l’intermezzo, quelle cinque pagine che sbocciano al centro del libro e che ho letto e riletto forse anche ingenuamente sorpresa di poter ritrovare certi miei sentimenti fra le pagine di un’altra.

«Edward Said riteneva piuttosto comprensibile che gli esiliati fossero spesso romanzieri, giocatori di scacchi, intellettuali: ‘il nuovo mondo dell’esiliato, verosimilmente, gli apparirà innaturale, e la sua innaturalezza sembrerà finzione, pura fiction’. Non posso paragonare il mio senso di sradicamento a quello di un esule, non ho perso né casa né patria, ma c’è qualcosa che impedisce alle mie radici di penetrare a fondo nel suolo».

Il sentimento di sentirsi estranei in letteratura in questi anni lo abbiamo letto e rielaborato sotto diverse forme ma ci deve essere un motivo se le scrittrici e gli scrittori alla fine tornano sempre lì. Evidentemente è un filone di estrazione che non si è ancora esaurito, e forse non si può esaurire presto anche perché una parte di coloro che hanno scelto di raccontare la loro vita sono, per forza o per scelta, diventati adulti in un’altra nazione. Raccontare la difficoltà di imparare un’altra lingua a livello madrelingua per poter essere rispettati nel mondo del lavoro e delle relazione mi sembra necessario per capire chi sono questi trenta-quarantenni che ‘vivono all’estero’. La storia di Moretti è la storia di tanti brevi passaggi in case e luoghi che alla fine mi danno la sensazione di essere più che altro scrigni per ruberie e non decisioni di vita. Passaggi obbligati per andare altrove, e non luoghi di approdo. Dalle nazioni Moretti ha trafugato esperienze, lingue, scrittrici e persino una naturalizzazione (tedesca) che tuttavia per un pelo stava per saltare.

Ancora nell’intermezzo Moretti dichiara:

«Scrivere è confrontarsi continuamente con l’impossibilità di un atto comunicativo perfetto. La perdita è l’impossibilità del contatto. Scrivere è perdere, nel tentativo di raggiungere. Tutto diventa banale e trito davanti a questo enorme buco nero che è il lutto. Quest’assenza così grande che mi risucchia e mi fa sentire inconsistente. Che cosa devo dire? Di cosa dovrei parlare? Scrivo d’altro, scrivo di altre».

Ed è nella strategia di Moretti, nello scrivere di altre per arrivare a parlare di sé, che ruota Incorreggibili. In un certo senso il modo in cui è stato architettato questo testo inverte la massima greca del pathei mathos, la conoscenza attraverso la sofferenza. Qui Moretti mette in atto esattamente il contrario: prima si conosce e poi si soffre, ma di una sofferenza filtrata dalle parole d’altre, in cui si naviga a vista, in cui non si affonda, ma si entra timidamente e con accortezza. Ma come in un ciclo perfetto ecco che la ricerca stessa diventa un ponte per tornare alla sofferenza iniziale e addolcirla, renderla abitabile, perché scioglierla, questo non è possibile. Così come non è possibile tornare a essere chi si era stati prima. Prima di iniziare a studiare, ad analizzare e a perdere. E anche questo ultimo scatto di chiave Moretti riesce a descriverlo con maestria e semplicità proprio nelle ultime righe del testo.

«Mi vergogno a scriverlo, ma mi sento di nuovo io, come se fossi tornata. Come se insieme all’anello che un tempo era perso anche io mi fossi ritrovata, pur sapendo che né lui né io siamo veramente gli stessi».




Immagine copertina: dettaglio della copertina del libro Incorreggibili

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