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In viaggio nel deserto culturale italiano. Intervista a Gianni Canova

Assistere alla messa in pericolo della cultura in Italia è uno spettacolo che nessuno avrebbe ipotizzato nei secoli addietro. Eppure oggi, nell’epoca della deriva populista e nazionalista, l’analfabetismo e il pregiudizio verso il mondo umanistico sembrano appestare il paese, pervaso da una sindrome di anoressia culturale.
«Una società che dileggia la competenza, che sostiene che chiunque può fare qualsiasi cosa, che sostiene l’equivalenza di tutti a prescindere dalle conoscenze, dallo studio, dalla performatività, finanche dal talento, è una società statica, abulica, bloccata su se stessa, incapace di trasformarsi» scrive Gianni Canova, critico cinematografico, saggista e dal 2018 Rettore della IULM di Milano, autore del volume Ignorantocrazia. Perché in Italia non esiste la democrazia culturale, edito da Bompiani nella collana Agone curata da Antonio Scurati. Un j’accuse che coinvolge direttamente la politica, che «ha riservato alla diffusione della cultura risorse sempre scarse e talora vergognosamente insufficienti», chi ha gestito negli ultimi cinquant’anni la televisione pubblica, i direttori dei giornali e dei grandi media. Ma anche, e forse soprattutto, il «deserto culturale italiano» abitato da intellettuali e professori, incapaci di trasmettere la passione e che «non sono stati capaci di comunicare che la cultura si può trovare in luoghi inaspettati e che a volte, inaspettatamente, è la cultura a trovare noi».
Una spietata analisi che non cede alla mortale tentazione di rinchiudersi in sé, ma anzi propone «possibili modelli di artefatti culturali funzionali allo sviluppo di una più diffusa e capillare democrazia culturale», vale a dire il fumetto, la televisione, la letteratura e, ovviamente, il cinema. Ritrovando un po’ di quel “cinemaniaco” che, in un passaggio che non potrà lasciare indifferenti, a chi gli dice che il cinema è un’invenzione senza futuro, ribatte: «Io invece sono convinto che il cinema sia stata l’unica rivoluzione del Novecento. Altro che Apple. A conti fatti, i veri rivoluzionari non sono stati né Lenin né Mao né Che Guevara. Sono stati i fratelli Lumière».
In esclusiva per Limina, abbiamo incontrato Gianni Canova per discutere del suo volume.

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«Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa» faceva dire nel 1963 Pier Paolo Pasolini a Orson Welles in La ricotta, episodio all’interno del film Ro.Go.Pa.G. Sono passati più di cinquant’anni, eppure l’Italia non sembra così cambiata.
Purtroppo lo dicono tutte le rilevazioni, dai dati Istat all’ultima ricerca dell’Oms con i risultati sulle competenze linguistiche, lessicali e matematiche degli italiani. A complicare il problema bisogna dire che, mentre la generazione uscita dalla guerra aveva consapevolezza della propria ignoranza e la vedeva come un disvalore, oggi l’ignoranza diventa quasi un titolo di merito, e chi mostra una qualche forma di competenza specialistica viene additato al pubblico ludibrio come appartenente a una casta.

Da qui nasce l’ignorantocrazia che dà il titolo al suo saggio?
La mia opinione è che, se il paradigma culturale in cui viviamo è questo, credo che l’ignoranza cessi di essere uno dei tanti problemi e diventi il problema. Il problema di una società formata da individui che non hanno la consapevolezza di se stessi, della propria identità, di ciò che sono, di ciò che potrebbero essere e di ciò che gli altri vorrebbero che fossero. Cioè siamo una società in cui la maggior parte delle persone è priva delle competenze minime per poter essere definita come cittadino. Siamo dei sudditi, mantenuti deliberatamente in una condizione di ignoranza, perché un popolo di ignoranti si manipola e si governa meglio rispetto a un popolo di cittadini.

Vista da questa angolazione, l’ignoranza alimenta un sistema che sembra mettere in discussione i principi fondanti della società occidentale.
Va a minare le basi fondanti della democrazia. Tutte le ultime ricerche europee ci dicono che i livelli di corruzione economica e politica di un paese sono direttamente proporzionali al livello di ignoranza: quanto più un popolo è ignorante, tanto più la corruzione si diffonde. Inoltre, quando un primo ministro afferma «Noi non ci occupiamo dello spread ma dei cittadini italiani» senza che nessuno scoppi a ridere, significa che l’ignoranza è condivisa sia dal primo ministro ma anche da chi legge quell’affermazione senza sentirla ridicola.

In questo scenario, anche la letteratura è chiamata sul banco degli imputati?
In Italia il romanzo arriva col buon Alessandro Manzoni nel 1840, in ritardo di oltre cent’anni rispetto a Daniel Defoe. Una lacuna che dura nel tempo, e che non è soltanto un ritardo storico. La letteratura italiana è da sempre una letteratura di rendita, fatta da persone che non avevano bisogno di lavorare per vivere: da noi, lo scrittore non è mai stato un intellettuale che esercitava una professione dalla quale ricavare un profitto. Questo vale anche oggi. Ne parla Luca Ricolfi nel suo bellissimo libro La società signorile di massa, nel quale sostiene che viviamo in un paese nel quale le persone che vivono di rendita hanno superato quelle che vivono di lavoro. Tornando alla letteratura, l’idea che le professioni creative siano degli hobby dopo-lavoristici per giovani signori oziosi ha frenato la diffusione della democrazia culturale nel nostro paese. Una democrazia, cioè, con un’industria culturale che offra a tutti i cittadini la possibilità di effettuare consumi culturali a fronte di lavoratori della cultura che possano vivere del proprio lavoro. Questo in Italia è uno scenario lontano: quanti possono vivere di letteratura in Italia, oggi?

Nel suo libro cita Ray Bradbury, che nel 1953 con Fahrenheit 451 profetizzava una società nella quale i libri devono essere bruciati. In realtà oggi siamo oltre: «I libri sono spariti da sé. Senza proteste. Senza resistenze».
I dati ci dicono che in Italia il numero di persone che legge libri è inferiore rispetto agli altri paesi. Non voglio dire che leggere generi persone migliori: conosco persone che non leggono libri che sono umanamente meravigliose, e al contrario persone che hanno letto migliaia di libri che sono dei farabutti. Leggere non rende necessariamente migliori, ma probabilmente rende più consapevoli, maggiormente capaci di guardare criticamente il mondo, la realtà e gli altri esseri umani. Da cittadino quindi esigerei dalla società delle procedure che mettano tutti nelle condizioni di avere queste conoscenze di base, che passano anche attraverso i libri.

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Queste procedure non dovrebbero nascere nelle scuole, e soprattutto nelle università?
L’università potrebbe avere una funzione molto importante se tornasse a fare quello per cui esiste: mettere lo studente al centro delle proprie attenzioni e proporre dei percorsi formativi che avessero come fine primo e ultimo la formazione di generazioni di giovani professionisti capaci di visione, spirito critico e senso di responsabilità, persone dunque che potrebbero essere la futura classe dirigente di questo paese. A volte le università lo fanno, e ci sono esempi eccellenti, ma molto spesso non lo fanno, e sono preda di baroni e accademie che badano soltanto a privilegi e piccole ambizioni personali. In passato l’università italiana si è consegnata mani e piedi a una burocratizzazione selvaggia, per la quale spesso sembra conti più ciò che verbalizziamo rispetto a ciò che insegniamo. La burocrazia soffoca la realtà, la strangola, le impedisce di correre, di volare, di sperimentare. E su questo negli ultimi anni c’è stato un eccessivo silenzio. Ricordo che siamo in Europa il paese con il minor numero di laureati, e ciononostante le televisioni pubbliche rimandano messaggi del tipo «non andate all’università, non serve a nulla». Se una televisione pubblica, che vive con i proventi pagati anche con le mie tasse, manda questo tipo di messaggi, io mi arrabbio.

Forse bisognerebbe tornare alla figura del maestro, che sta lentamente svanendo. Una guida, un esempio autorevole che tracci un percorso da seguire, mentre tutti si improvvisano recensori su Tripadvisor e si laureano “all’università della vita”.
Bisogna guardare all’imitatio e all’aemulatio. Sostengo che una delle grandi differenze che divide gli esseri umani è l’aver incontrato oppure no un vero maestro. C’è chi ha avuto la fortuna di incontrare nella propria vita almeno un insegnante capace di trasmettere il fuoco; se hai avuto questa fortuna, qualsiasi sia la tua classe sociale o la tua provenienza, puoi trovare te stesso e la tua strada, e ti salvi. E poi c’è chi non ha avuto questa fortuna, e dalle elementari all’università ha incontrato solo figure di docenti spenti, frustrati, annoiati, ripetitivi: se trovi insegnanti di questo tipo, interiorizzi l’idea che la cultura sia inutile, fiacca, noiosa, superflua. Ti perdi. Il maestro è invece colui che ti accende, che ti brucia o ti fa bruciare. L’etimologia dice che è colui che lascia un segno su di te, un segno che ti porta a cercare e a cercarti altrove.

Nella seconda parte del libro, ripropone alcuni saggi scritti tempo fa e ormai irreperibili, nei quali indica come il fumetto (Tex), la televisione (La piovra), la letteratura (Giorgio Scerbanenco) e il cinema (Ettore Scola) possano diventare modelli per la costruzione di quella democrazia culturale che oggi ancora manca nel nostro paese. Un punto di ripartenza?
Quella sezione è una pars construens, il tentativo di risposta all’obiezione di chi potrebbe chiedere se oggi ci siano solo segnali negativi. La risposta è no: ci sono esempi di democrazia culturale che tracciano possibili percorsi di inclusione, diffusione e promozione di un’idea di cultura appassionante e coinvolgente. A modo loro, questi quattro media sono modelli di grandi narrazioni popolari, che coinvolgono un pubblico di massa mantenendo la qualità e la quantità. Spesso si crede che la qualità sia per pochi, mentre la quantità siano sinonimo di scarsa qualità. «Se una cosa piace a tanti è brutta, se piace a pochi è bella» si pensa.  Ma non è affatto così, e la mia battaglia è per affermare che qualità e quantità possono combaciare. Basterebbe pensare al grande design italiano, che ha mostrato come si possano creare produzioni seriali mantenendo la qualità estetica, inseguendo l’utopia di portare la bellezza nelle case di tutti. Gli esempi che mostro nel libro vanno in questa direzione: il successo non è una cosa di cui ci si debba vergognare.

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Questo vale anche per il cinema?
Certamente. Quante volte ho sentito dire a un regista «A me gli incassi non interessano», poi però la mattina alle sei sono già svegli a consultare i dati Cinetel. Il denaro è sempre lo sterco del diavolo se deposita i propri escrementi nel portafoglio altrui, ma non lo è più quando li deposita nel tuo. Qualità e quantità si possono applicare anche in sala, basta pensare al recente Pinocchio di Matteo Garrone, che può piacere o meno ma è un’opera elegante, di grande qualità estetica, che arriva a incassare 15 milioni di euro, un dato che valuto in modo positivo. E lo stesso vale per l’ultimo film di Checco Zalone, che ha per tema l’ibridazione culturale: sceglie l’ibridazione anche come strumento linguistico, mescolando musical, commedia, cartone animato, mescolando Primo Levi e Sergio Endrigo, i balletti acquatici al patetismo, in un cocktail di linguaggi e stili, che fa sì che la forma del film aderisca al suo oggetto. Molto più raffinato di quanto non sembri.

Nel capitolo finale scrive: «La vera rivoluzione del Novecento? Il cinema, probabilmente». Cinema che oggi, a sua volta, sta subendo una rivoluzione con l’ingresso delle nuove piattaforme di streaming.
È in atto un forte cambiamento. Il cinema, inteso come dispositivo cinematografico in sala, è sempre più minoritario mentre diventa sempre più intenso il consumo di film da parte del pubblico di tutto il mondo. Questo per me è un dato estremamente positivo, io stesso mi guardo film sul computer o l’iPad. Anche se l’esperienza del cinema in sala è molto più sexy.

Si ha la sensazione che un mondo stia finendo, e ne stia iniziando uno nuovo. Come vede i rivoluzionari del domani, coloro che dovranno frantumare i muri dell’ignorantocrazia?
Sono molto fiducioso rispetto alle giovani generazioni. Osservo in università i ragazzi di diciannove o vent’anni, mi sembrano molto lucidi, molto appassionati e molto consapevoli. Non conosco i motivi, ma sono ragazzi che non si accontentano, sono seri, responsabili, e rispetto ai loro coetanei di dieci anni fa hanno capito che devono prendersi in mano il loro futuro.

Alla fine di questo processo avrà la meglio il cinefobico o il cinemaniaco?
Si potrebbe chiudere con una citazione da Paolo Sorrentino: «Hanno tutti ragione».

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