Nel 2014 finalmente coronai il sogno di vedere pubblicata un’antologia italiana, ragionata, di saggi scritti da Barry Lopez nell’arco di oltre trent’anni. Fu quell’anno che curai Una geografia profonda. Scritti sulla Terra e l’immaginazione (Galaad Edizioni): pensato insieme, questo progetto sposato da un piccolo ma attento editore, per me fu molto più di un libro. Fu il sigillo di un’amicizia che Barry mi aveva donato, elargendomi, oltre ad essa, anche molti consigli sulla scrittura. Quando uscì quel volume (l’unica antologia al mondo non in lingua inglese dell’autore statunitense), agli amici, Barry aveva già svelato la sua malattia ma, incurante di tutto, mentre si curava continuò a scrivere Horizon, la sua opera totale e definitiva pubblicata nel marzo 2019 dai tipi di Knopf, dopo circa trent’anni di lavoro. Tutti la aspettavamo, sapendo da anni che stava per essere “conclusa”. Uno sforzo immane – che spero si potrà leggere in Italia, un giorno – capace di affermare, con la pura forza della grandezza letteraria, che se l’uomo è scomparso a 75 anni lo scorso Natale 2020, la sua opera sarà per sempre inaffondabile come solo quella dei grandi sa essere. In Italia, nonostante siano usciti sia Sogni Artici che Lupi e Uomini, oltre a Una Geografia Profonda e Resistance, al quale aggiungo l’ebook di Frammenti di cielo, è sempre stato difficile farlo arrivare a un pubblico più vasto e di questo ne abbiamo parlato, mentre mi abbeveravo alla sua saggezza e alla sua scrittura.
Eppure, chiunque da trent’anni a oggi pubblichi qualsiasi cosa legata al viaggio, alla relazione profonda con la natura, al rapporto tra paesaggio e cultura, non può prescindere da Barry Lopez per la semplice ragione che la sua profondità è tale da esigere un confronto. Noi che scriviamo, se evitiamo questo confronto, non possiamo produrre nulla che sia veramente capace di aggiungere qualcosa a una modalità narrativa che lui ha creato e che non ha paragoni. Lo ha detto bene David Quammen a proposito di Horizon: «Il mondo è vasto, così come lo sono il cuore e la curiosità di Barry Lopez. La sua è una voce che non ha eguali, necessaria. Nessun autore vivente, per quel che io ne sappia, sa pensare con tale attenzione alla dimensione morale del paesaggio». Fu quello che mi disse la prima volta che parlai con lui nel 1995: «Io mi occupo del rapporto tra cultura e paesaggio» e da questo contesto intellettuale, ma nel contempo molto fisico, quando lessi The Invitation su Granta Magazine, scaturì la proposta di includerne la traduzione per un progetto speciale, allora in fase di realizzazione, l’elegante magazine-libro Walden del naturalista Antonio Portanova. Barry aderì con entusiasmo e lavorammo a stretto contatto per ragionare sulla scelta dei vocaboli – mai casuali, mai superficiali – a partire dalla difficile scelta di tradurre The Invitation con Il Richiamo.
In Lopez, nulla è scontato; proprio come durante un viaggio, nella wilderness piuttosto che in una città, ogni parola è un evento che risuona di vastità e che richiede di essere meditata, prima di essere pronunciata. Me lo hanno insegnato i suoi libri, me lo ha insegnato lui: scrivere è raccontare, richiede dunque spazio e tempo. Leggere Barry Lopez significa ascoltare una voce ben distinta e trovare un ritmo ben preciso. Perché sapeva che il suo importante ruolo culturale poteva e doveva lasciare un segno utile e non a caso di sé diceva «voglio vivere una vita che sia stata utile». La sua opera è con noi e lo sarà per i prossimi secoli. Perché è formidabile, perché è necessaria.
Davide Sapienza, Presolana, gennaio 2021
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Il richiamo
Da giovane, nel corso dei primi viaggi con persone indigene, io immaginavo che loro vedessero e sentissero meglio e che in generale fossero semplicemente più preparati, più consapevoli e in grado di vedere e ascoltare più di quanto io riuscissi a fare. Ogni volta, viaggiando con loro, era l’assenza di conversazione che avrebbe dovuto fornirmi l’indizio sul perché di questa realtà, ma per un po’ non fui capace di coglierlo. Un indizio c’era. Se un osservatore non trasforma immediatamente ciò che gli viene trasmesso attraverso i sensi in forma di un linguaggio, che è il vocabolario e la cornice di riferimento sintattica che tutti adottiamo nel tentativo di definire le nostre esperienze, ci viene offerta un’opportunità ben più grande: ovvero che i dettagli minori, quelli che a prima vista ci possono apparire di nessuna importanza, riescano a vivere in primo piano all’interno di un’impressione al punto da rendere più profondo il significato di un’esperienza in seguito.
Per fare un esempio, se con i miei compagni incontravamo un grizzly che mangiava dalla carcassa di un caribù, io tendevo a concentrarmi esclusivamente sull’orso e loro su quella parte di mondo del quale l’animale, in quel momento, era solo un frammento. In questa situazione l’orso potrebbe essere paragonato a un falò, una sorta di incandescenza che diffonde una luce su tutte le cose intorno. I miei compagni farebbero rimbalzare lo sguardo avanti e indietro sino ai limiti più esterni del campo visivo, poi guarderebbero di nuovo il fuoco, collocando reiteratamente la cosa più piccola nell’ambito di quella più grande. Notando le tracce degli odori nell’aria, ascoltando il canto degli uccelli o il suono teso e nervoso del sottobosco, estenderebbero il momento dell’incontro con l’orso a tutti gli effetti avanti e indietro nel tempo. Il loro contesto di riferimento del fenomeno, che io avrei magari riassunto in seguito con un semplice “incontro con l’orso“, era più ampio del mio; di norma, i miei confini temporali dell’evento si sarebbero di poco estesi oltre i momenti dell’incontro stesso, mentre i loro avrebbero incluso lo spazio di tempo precedente il nostro arrivo, oltre a quello trascorso dopo il nostro passaggio. Per me, il nome era un sostantivo, il soggetto di una frase; per loro era un verbo, un orso al gerundio che stava “orsando” (nota: “bearing” è un ipotetico gerundio di “bear”, in questo caso Lopez vuole sottolineare come per alcuni popoli nativi il linguaggio sia più ricco di verbi che di sostantivi, riflesso di culture che vedono la vita in divenire continuo. NDT)
Nel corso degli anni, attraversando il territorio con gli indigeni mi ha consentito di assimilare due lezioni per essere più pronto nel caso di un incontro con un animale selvatico. La prima era il mio bisogno di comprendere che stavo diventando parte dell’evento nel corso del suo svolgimento: ciò che era iniziato prima del mio arrivo, sarebbe proseguito nel suo svolgersi anche dopo. La seconda era l’evento in se stesso – anche se non avessimo disturbato il grizzly che stava mangiando e che avessimo solo esaminato quello che stava facendo prima di scivolare via – che non poteva essere definito completamente solo in riferimento alla geografia fisica di quegli attimi. Io per esempio avrei potuto non ricordare qualcosa che tutti avevamo visto mezzora prima, ad esempio l’impronta di uno zoccolo di caribù sul terreno morbido in riva a un piccolo corso d’acqua; i miei compagni lo avrebbero ricordato e dopo l’incontro con l’orso, magari mezzo miglio più avanti, loro avrebbero notato altre cose, tipo i peli di giarra del grizzly impigliati nelle scaglie di una corteccia che avrebbero messo in relazione a qualche dettaglio osservato durante gli attimi in cui ci eravamo fermati a osservare l’orso. Lo stesso evento che io nella mia mente stavo catalogando come “incontro con un grizzly della tundra“, per loro era l’esperienza improvvisa simile all’immersione nella corrente di un fiume. Ci nuotavano dentro, la sentivano tirare, notavano la temperatura dell’acqua, i mulinelli che venivano da sotto e da dove entravano i flussi esterni. Il mio approccio, al contrario, era principalmente quello di prendere nota degli oggetti sulla scena: l’orso, il caribù, la vegetazione della tundra erano una serie di puntini che avrei provato a trasformare in qualcosa di sensato connettendoli con una linea. I miei amici si erano collocati all’interno di un evento dinamico e diversamente da me, non avevano avvertito il bisogno immediato di risolverlo, dandogli un significato. Il loro approccio era di continuare a lasciarlo svolgere. Notare ogni cosa e lasciare che al momento giusto potesse emergerne un qualche significato.
La lezione da apprendere, se volevo sperare di arrivare a una comprensione più profonda dell’evento, non era quella di prestare maggiore attenzione a ciò che stava accadendo intorno a me, bensì di mantenere la mente analitica in uno stato di sospensione mentre osservavo tutto quello che stava accadendo. Dovevo resistere allo stimolo di definire o di riassumere, dovevo allontanarmi dalla pulsione così familiare di voler capire. Ma non era tutto: era necessario incorporare una caratteristica quintessenziale del modo di osservare dei popoli indigeni. Queste persone prestano più attenzione agli schemi inerenti a ciò che incontrano che ai loro singoli componenti. Incontrando l’orso avevano subito iniziato a cercare uno schema in grado di delinearsi ai loro occhi come “un orso che si nutre da una carcassa“. Quindi avevano raccolto le diverse componenti che in seguito sarebbero andate automaticamente ad assemblarsi prendendo la forma di un evento ben più ampio di “un orso che si nutre”. Le varie parti non integrate che immagazzinavano nel corso del viaggio (la natura del paesaggio sonoro che permeava quel particolare paesaggio fisico; la presenza o l’assenza del vento e la direzione dalla quale veniva o dove era andato; un frammento di guscio d’uovo screziato; le foglie mancanti dagli steli di una determinata specie di sterpi; un buco appena scavato nel terreno) portavano a ben poco, singolarmente. Solo concedendo a queste componenti di risolversi lentamente sino a diventare uno schema, esse avrebbero potuto rivelare qualcosa, gettando una luce ulteriore sul territorio.
Nell’apprendere come capire più profondamente un territorio, la prima lezione era stata quella di prestare attenzione sempre e di reprimere lo stimolo a porsi al di fuori dall’evento, rimanendo invece al suo interno per consentire al significato di emergere in seguito; la seconda lezione fu quella di notare quante volte io chiedevo al corpo di rinviare i precetti della mia mente e quanto la straordinaria capacità del corpo di discernere schemi e profumi, quella che mi permetteva di poter distinguere tra tonalità e colori nel mondo esterno, veniva respinta dalla mente razionale.
Nonostante fossi pienamente convinto di essere pienamente presente nei mondi fisici dove stavo viaggiando, con il tempo compresi che in realtà non era cosi. Più spesso che no, io stavo solo pensando al luogo nel quale mi trovavo. Davanti a un evento come il grido acuto di una volpe grigia nelle foreste di notte o l’emersione di una grande balena, per fare due esempi, io inizialmente ero in soggezione e spesso andavo subito dritto a fare un’analisi. A volte mi capitava di sposare i miei pensieri, certe cascate di idee, al punto da perdere realmente contatto con i dettagli che il mio corpo stava ancora raccogliendo in un determinato luogo. L’orecchio udiva il canto di un passero del vespro e quando la ascoltava nuovamente sapeva che la seconda volta veniva da un altro passero del vespro. La mente, compiaciuta di se stessa per essere stata in grado di identificare quelle note come il canto di un passero del vespro, era troppo preoccupata a classificare per notare quello che l’orecchio stava ancora offrendole. La mente non sapeva che farsene della capacità del corpo di essere in grado di distinguere i suoni. E per questo, la conoscenza di quel luogo da parte della mente restava a un livello superficiale.
Molti hanno scritto che in genere, rispetto a un estraneo che viaggia con loro, i popoli indigeni sembrano in grado di raccogliere più informazioni durante l’attraversamento di un territorio. L’estraneo proviene da una cultura e non tiene più in grande considerazione l’intimità fisica con un luogo perché considera questo tipo di sensibilità come un attributo “primitivo“, qualcosa che il visitatore proveniente dalla cultura “avanzata” si sentirebbe meglio nel convincersi di esserne libero. Per come sono arrivato a comprenderla io, questa visione noncurante ignora il grande e intangibile valore che ci dona la grande intimità fisica con un luogo. A chi cede a questo desiderio di intimità, per quanto scortese possa sembrare, sarei incline a far notare che non è possibile liberarsi della solitudine, per un essere umano. Anche chi appartiene a una cultura che cede alla natura può facilmente sfuggire all’ossessionante pensiero che la vita non abbia senso.
La solitudine esistenziale e la sensazione che la propria vita sia incoerente, sono segni distintivi delle civiltà moderne e a me pare che derivino parzialmente dall’abbandono della fiducia nelle dimensioni terapeutiche della relazione con il luogo. É quel senso sempre nuovo dell’insondabile complessità presenti negli schemi del mondo naturale; sono configurazioni sempre presenti, riconoscibili e che includono l’osservatore, facendo diminuire la sensazione di essere da soli nel mondo o di non avere alcun senso al suo interno. In definitiva lo sforzo di conoscere profondamente un luogo è un’espressione dell’umano desiderio di appartenenza, di sentirsi giusto per un determinato luogo.
Secondo la mia esperienza, la determinazione nel conoscere un posto in particolare viene sistematicamente ricompensata. Nella mia mente ogni luogo naturale è pronto a essere conosciuto e in qualche punto di questo processo una persona inizia a percepire che anche lei sta per essere conosciuta e che quando è assente da quel luogo, sa che a quel posto lei mancherà. Questa reciprocità, il conoscere e l’essere conosciuti, rinforza la percezione di essere necessari al mondo.
Probabilmente la prima regola di tutto ciò che ci sforziamo di fare è quella di prestare attenzione, la seconda forse quella di essere pazienti. E magari una terza è quella di prestare attenzione a ciò che è il sapere del corpo. La mia esperienza dice che i popoli indigeni non per forza sono più consapevoli delle persone con le quali sono cresciuto io nella cultura moderna da dove provengo. Le culture indigene abbondano di individui disattenti, pigri, incapaci di discernere e tanto quanto le culture “avanzate“. Loro però tendono ad attribuire un valore più alto al valore dell’intimità con il luogo. Quando viaggi insiema a loro hai la netta percezione che questa sia una prassi fondamentalmente diversa dalla tua. Sono più attenti e più pazienti; sono meno disposti a dire ciò che sanno e a condensare il mistero in un linguaggio. Quando ero giovane, se uno dei miei compagni di viaggio faceva qualche commento sorprendentemente efficace sul luogo che stavamo attraversando, io certe volte provavo invidia, un’emozione da ascrivere non tanto al desiderio di possedere quella stessa conoscenza profonda, ma un evidente desiderio di appartenere a un luogo particolare. Essere chiaramente una parte integrante del luogo dove ci si trovava.
Un grizzly che strappa i frutti dalle piante di more tra il folto degli alberi è più di un orso che strappa i frutti dalle piante di more nel boschetto. É un punto di ingresso verso un mondo al quale gran parte di noi ha girato le spalle nel tentativo di andare da qualche altra parte, convinto che staremo molto meglio semplicemente pensando al grizzly che strappa i frutti dalle piante di more tra il folto degli alberi.
Il momento è un richiamo e l’invito dell’orso a partecipare viene offerto, senza pregiudizio, a chiunque si trovi a passare da lì.
Traduzione di Davide Sapienza
Illustrazioni di Simona Piccolini