Prosegue il viaggio di Limina tra i libri finalisti della X edizione del Premio Lattes Grinzane, riconoscimento internazionale organizzato dalla Fondazione Bottari Lattes che vede la partecipazione di autori italiani e stranieri ed è dedicato ai migliori libri di narrativa pubblicati nell’ultimo anno. Finalisti dell’edizione 2020 sono Giorgio Fontana con Prima di noi (Sellerio), Daniel Kehlmann con Il re, il cuoco e il buffone (traduzione di Monica Pesetti; Feltrinelli), Eshkol Nevo con L’ultima intervista(traduzione di Raffaella Scardi; Neri Pozza), Valeria Parrella con Almarina (Einaudi) ed Elif Shafak con I miei ultimi 10 minuti e 38 secondi in questo strano mondo (traduzione di Daniele A. Gewurz e Isabella Zani; Rizzoli). Lungo il tragitto che porterà alla premiazione finale prevista per sabato 10 ottobre presso il Teatro Sociale Giorgio Busca di Alba alle ore 16.30, in presenza fino a esaurimento posti e in diretta streaming, Limina seguirà da vicino il Premio, proponendo recensioni, interviste e articoli di approfondimento per conoscere meglio i cinque libri finalisti e accompagnarli verso il traguardo finale.
Per la terza tappa del nostro cammino ci spostiamo dall’Italia del Sud di Almarina al Nord, in compagnia di Giorgio Fontana e il suo Prima di noi.
Una poderosa saga familiare che parte con la diserzione di un fante dopo Caporetto e da un casale in Friuli, per attraversare il Novecento italiano a balzi, tra slanci e cadute, fino a una giovane donna che guida nella notte dall’hinterland milanese per raggiungere quello stesso casale e scoprire il segreto all’origine della sua storia. Attraverso quattro generazioni della famiglia Sartori il racconto di un secolo di italiani del Nord, un piccolo mondo contemporaneo dalla campagna contadina e dal patimento per la fame e la fatica alla desolazione del paesaggio industriale e all’angoscia per il futuro, dagli anni della guerra agli anni del precariato.
Per la copertina Sellerio ha scelto un’immagine che rivela un elemento centrale della trama: una lettera dal passato, che salta il suo destinatario e con lui due generazioni, per giungere a chi davvero aveva bisogno di leggerne il contenuto.
A Prima di noi, Limina aveva già dedicato la recensione appassionata di Federica Manzon. Con l’occasione della sua candidatura al premio Lattes Grinzane, torniamo su questo libro insieme al suo autore; chiacchierando con Giorgio Fontana siamo partiti dal premio, per poi parlare della lunga gestazione del suo romanzo, del suo approccio alla scrittura, della sua ricerca di una medietas stilistica e umana, dello studio dell’amore letterario, per finire inevitabilmente a discutere dei suoi personaggi, di cui Giorgio parla affettuosamente come se fossero persone nella stanza accanto.
Tu hai già vinto il Premio Campiello con Morte di un uomo felice nel 2014 e in una recente intervista al Corriere del Trentino ti sei espresso sui premi, dicendo che per uno scrittore «sono importanti nella misura in cui confermano un percorso». A proposito del premio Lattes Grinzane questo è senz’altro vero per quanto riguarda la selezione dei finalisti, che sono scelti da una giuria composta da professionisti del settore, ma il vincitore sarà decretato dagli studenti di scuole in tutta Italia. Prima di noi si presta molto a una lettura didattica perché abbraccia quasi un secolo di storia italiana e l’hai costruito con una ricerca storica e d’archivio molto rigorosa, come vivi il fatto che venga proposto in classe?
Per me è un grande onore, un grande piacere e lo vivo con vera curiosità. Mi metto nei panni di un ragazzo: anche un forte lettore può essere spaventato da un libro così corposo e così lungo, però mi auguro che anche i più giovani si lascino andare al flusso della narrazione, che ho cercato di mantenere sempre il più brioso e aereo possibile, e che si lascino trasportare nel corso di questo Novecento e oltre che ho provato a raccontare.
Il mio proposito scrivendo è sempre di natura esclusivamente artistica. Non ho voluto scrivere un compendio di storia italiana del Novecento, né avevo fini didattici, perché credo che non sia quello il ruolo del romanziere. Il romanziere racconta storie immaginarie e personaggi di finzione. Ciò detto, è innegabile che questi personaggi, i Sartori, siano immersi nella Storia, sulla quale ho voluto essere il più puntiglioso possibile: quindi se come valore aggiunto un lettore, e in particolare un lettore molto giovane, percorre la storia italiana attraverso gli occhi dei miei protagonisti, tanto meglio.
Prima di noi ha avuto una lunga gestazione: dopo cinque anni di ricerca hai lavorato alla stesura per altri cinque anni. Come hai trovato la forma giusta per raccontare la storia che avevi in mente, come sei arrivato a questa narrazione che procede in prevalenza per piccoli quadri? Credi che la tua esperienza come sceneggiatore di fumetti per Topolino ti abbia influenzato?
Il metodo si è imposto fin da subito. Ho cominciato a scrivere cronologicamente, sono partito dall’incipit nel 1917 e sono andato avanti seguendo la freccia temporale. La prima parte è tutta raccontata dal punto di vista di Maurizio, ma quando sono passato ai suoi figli, la seconda generazione dei Sartori – Gabriele, Renzo e Domenico –, mi sono posto il problema di come far interagire più voci, più punti di vista. Piuttosto istintivamente ho pensato di affidare a ciascuna voce un capitolo e quindi creare un prisma di punti di vista differenti, in formato però abbastanza breve e stringato. Ho affrontato moltissimi problemi di ordine compositivo, ma questo per fortuna si è risolto abbastanza rapidamente. Non credo che nella stesura la mia esperienza di sceneggiatore di fumetti abbia avuto un ruolo preponderante (si tratta di due tecniche narrative piuttosto differenti e piuttosto lontane), perlomeno consapevolmente; però potrebbe aver avuto un’influenza inconscia.
Prima di noi è stato paragonato a grandi classici italiani: tra i più citati Le confessioni di un italiano di Nievo. Tu stesso ti sei definito un romanziere classico. C’è però anche la modernità nella tua scrittura, in questo andamento così fortemente ellittico, con la narrazione che procede per salti temporali e si sofferma soprattutto su singole scene, con brevi scambi di dialogo quasi teatrali tra i personaggi e un distinto gusto per il dettaglio.
Considero Prima di noi un romanzo classico, nel senso che non sono mai stato tentato nel corso del mio lavoro narrativo da opzioni avanguardistiche o postmoderne. I romanzi che mi piacciono e i romanzi che scrivo sono essenzialmente condotti sulla base del metodo classico: personaggi alle prese con eventi, situazioni di vario genere e una storia che, per quanto priva di eclatanti colpi di scena, scorre con un andamento regolare, senza lunghe digressioni di carattere teorico o particolari esplosioni linguistiche. E tuttavia è inevitabile che sia anche figlio dei miei anni e quindi che abbia assorbito anche tanta modernità. Così Prima di noi è un romanzo in cui il ritmo di narrazione a volte si contrae e a volte si distende, con l’alternarsi di parti in cui i capitoli sono molto brevi ad altre in cui sono più lunghi. Guardavo alla grande tradizione romanzesca dell’Ottocento e dei primi del Novecento, guardavo a Stendhal, guardavo ai russi, guardavo a certa tradizione austroungarica, ma è anche vero che i due libri che ho tenuto sul comodino più spesso mentre scrivevo erano Gita al faro di Virginia Woolf e Underworld di Don DeLillo; quindi probabilmente la commistione tra queste fonti di ispirazione ha creato in qualche modo un ibrido.
Il tuo è stato definito un romanzo antieroico e tu stesso hai dichiarato di voler raccontare il Novecento dei margini, delle storie minori, e personaggi «senza picchi di altezze e bassezze». Però tra questi Sartori sconfitti abbiamo comunque un fotografo di successo internazionale, una cantautrice e un fumettista. Quindi, con alcune eccezioni, a segnare la stirpe dei Sartori non è forse più un sentimento di sconfitta che un fallimento nel mondo?
Ognuno dei Sartori ha effettivamente una propria capacità e a volte a qualcuno va meglio che ad altri.
Alle origini della famiglia ci sono Maurizio, che sa cantare molto bene, e Nadia, un grande talento per il disegno, ma sfortunatamente per le condizioni storiche e sociali in cui si trovano non possono coltivare queste inclinazioni – anche se poi Nadia continuerà a disegnare tutta la vita. Davide raggiunge il successo professionale con la fotografia, ma né lui né nessun Sartori ricopre un ruolo preponderante nella Storia con la S maiuscola – anche perché non amo raccontare quel tipo di personaggi. Senz’altro ci sono una sorta di malinconia e di sentimento di sconfitta diffusi un po’ in tutti i componenti della famiglia, che tuttavia restano sempre capaci di creare profonde forme di bellezza. Diciamo che volevo raccontare la storia di persone più o meno comuni, dove questo “più o meno” è una variazione d’onda, passando da una persona come Libero, che non ha particolari talenti, che è un uomo di famiglia, un uomo devoto, ma non possiamo definirlo un uomo straordinario, a persone con delle caratteristiche personali, delle qualità e anche un impatto sul loro piccolo mondo molto più forte. Il tutto tenendomi su un registro che escludesse sia i falliti totali e sia i grandi della Storia.
Quello che dici sulla sensibilità alla bellezza dei Sartori è molto evidente, perché per esempio Libero, che hai menzionato, è senz’altro uno dei personaggi meno realizzati nella vita, ma tra i protagonisti è anche quello a cui affidi alcune delle riflessioni più profonde e sono focalizzati su di lui alcuni dei passi del libro in cui la tua scrittura assume i toni più elevati.
Sì, è uno dei personaggi che fa un maggiore lavoro sulla sua interiorità, anche perché rimane solo molto spesso: è un ragazzino bullizzato, è un marito abbandonato e poi sarà anche un padre in qualche modo abbandonato, almeno per un periodo, e questo lo porta inevitabilmente a ragionare sulla sua condizione, traendone delle riflessioni che magari superano per profondità quelle dei cugini o dei parenti più colti e più affermati. Questo perché è dotato di una sensibilità personale fortissima.
All’origine della stirpe dei Sartori, e del romanzo, c’è una doppia diserzione: Maurizio Sartori abbandona il fronte a Caporetto e abbandona Nadia quando scopre che aspetta un figlio da lui. La cosa interessante di questa fuga è che Maurizio in realtà ama Nadia.
Come molti aspetti all’interno del romanzo questa è una storia che si ripete nelle vite dei discendenti, in tutti gli amori dei Sartori c’è un momento in cui qualcuno se ne va, o minaccia di andarsene, si tira indietro. Il più delle volte si rimane insieme, ma altre no; due figure in particolare assomigliano a Maurizio: Davide, che abbandona la sua compagna Sophie, e Dario, che lascia la sua ragazza Emma. Già nel tuo romanzo precedente, Un solo paradiso, tu ti eri concentrato su una coppia contemporanea e per prepararti avevi letto molta saggistica su amore e disamore. Quanto ha influito questo lavoro passato nel tratteggiare la vita sentimentale dei Sartori?
Quando ho iniziato a lavorare su Prima di noi ho voluto fare tabula rasa di quello che avevo scritto e pensato in precedenza. Se i lavori del passato mi hanno influenzato, credo si tratti più che altro di influenze inconsce che si sono sedimentate nel corso degli anni, del lavoro, della scrittura. Di sicuro tutto quello che ho letto, che ho cercato di studiare sulle relazioni sentimentali, sull’amore, sulla tenerezza o sul disamore da Proust a Roland Barthes mi è stato molto utile e mi ha fatto capire la maggiore importanza, ma anche una certa caducità, di questo sentimento; o la sua ferocia per altri versi, la sua incapacità di arrendersi di fronte anche all’evidenza. Ho immaginato delle coppie che come tutte le coppie hanno dei momenti di crisi; talune si spaccano, qualcuno fugge, e altre invece rimangono insieme perché l’amore è più forte di questi conflitti. Penso innanzitutto a Gabriele e Margherita, ma penso ancor di più a Diana e Sandra, forse la coppia più felice di tutto il romanzo, l’amore più grande che racconto in Prima di noi, il più realizzato, anche il più lineare per molti versi. Ho cercato di mostrare tante forme di relazione sentimentale e tante forme di amore tra i miei personaggi. Forse sul lettore gli effetti delle grandi separazioni sono più forti, però ho cercato di rappresentare anche le storie che durano nella loro quotidianità e semplicità anche se hanno un tono minore: magari non hanno l’effetto devastante che ha l’abbandono di Davide che lascia Sophie o di quando Marta rimane in Africa lasciando Libero e Dario. Questi sono elementi narrativi molto più violenti. Mi piace di più ricordare la serena e rispettosa quotidianità che accompagna le coppie riuscite del romanzo o alternativamente l’amore fortissimo, ma di tutt’altra natura di Maurizio e Nadia, che è reale, che c’è, che è profondo, ma il problema in questo caso è più che altro una sorta di analfabetismo emotivo di Maurizio: nessuno ha mai spiegato come si ama una persona a quel ragazzo, e lui da solo fa molta fatica.
In un’intervista hai detto che i tuoi preferiti sono proprio Maurizio e Diana.
In realtà cambio spesso idea a seconda del periodo. Sono molto affezionato a Nadia perché è uno dei personaggi cardine dell’intero romanzo e anche a Gabriele, forse per affinità, per sensibilità letteraria, per quello che fa. Però di fatto voglio bene a tutti.
Photo Credits
Ritratto di Giorgio Fontana di Tania Madaschi
Albero genealogico della famiglia Sartori a cura di Magda Crepas
Artwork copertina a cura di Alessandra Corsi