Come nel mondo è spesso la casualità a dettare i destini, nel mondo dei libri si sa che i destini, non casuali, sono tutti tracciati nei nomi e dai nomi dei personaggi, e nei titoli. Il titolo del romanzo dell’esordiente Alberto Ravasio, La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera (Quodlibet, 2022), approccia il lettore con la parvenza ammiccante dell’ironia e la disarmante potenza dello squallore – cosa che caratterizza peraltro tutto il romanzo –, fattori dei quali si pensa sempre di poter incautamente sorridere, ritenendoli estranei alla propria esistenza. Di quale «vita sessuale» si tratti è presto detto, perché il giovane protagonista si sveglia una mattina d’agosto trasformato in donna, o “transessualizzato”, contro la sua volontà; evenienza della quale durante tutta la vicenda Sputacchiera continuerà a chiedersi la ratio e dalla quale cercherà in tutti i modi di guarire, con peripezie davvero esilaranti, nella loro tragicità di rivisitazione di luoghi comuni.
Se non bastasse l’intelligenza a renderlo pesce fuor d’acqua in un mondo ottuso di provincia, la metamorfosi improvvisa e inaspettata in “donno” del protagonista, certo tra i più vecchi dispositivi letterari di straniamento o di spostamento del senso, è però una novità semantica in quanto trans-formazione, a partire dall’impiego del termine, francesismo di recente introduzione anche nell’italiano corrente, che tra l’altro nel libro da attributo («corpo transessualizzato») finisce per designare la persona stessa («il transessualizzato»). Anche la causa, se definibile come un contrappasso, è comunque una reminiscenza letteraria, perché Sputacchiera, in quanto normale «mammifero» rimasto per cause innaturali «vergine», desidera sopra ogni cosa il contatto avvolgente di una donna, finendo così per trasformarsi nell’oggetto stesso, raggiunto, del suo desiderio; ma anche qui le carte in tavola vengono sparigliate dall’autore, perché tra le cause della metamorfosi vi è il Porno, entità informatica sovrannaturale nella cui «tana del biancoconiglio» Sputacchiera un giorno era caduto, direttamente dalla sua cameretta, e viaggiando ogni giorno con il «nome di battaglia» di Carmela Pene nella galassia dei video prima e poi degli incontri hard della Rete. Ed è proprio nel «continente sperduto» del Porno che Carmela Pene incontrerà il Negro, «parodia del maschio scopatore» e «utente pornomutato» come Sputacchiera, il quale avrà un ruolo chiave nel finale, dopo aver contrappuntato di messaggi osé la narrazione e il cellulare di Carmela Pene.
In un libro dove stasi e movimento si alternano in maniera ossimorica, visto che nella metamorfosi e nella fuga del protagonista si innestano il flashback della sua intera vita amorosa fallimentare, sono sempre i nomi a introdurre alla lettura socio-antropologica della vicenda, tenendo per fermo che si tratta prima di tutto un romanzo di (de)formazione; Sputacchiera, il patronimico del protagonista, non è altro che un oggetto deputato a raccogliere gli sputi, mentre il germanico Guglielmo indicherebbe etimologicamente una via di redenzione: quindi al protagonista spetterebbe la redenzione di/da una schiatta di condannati dalla Storia, sennonché di volontà il povero Guglielmo manca, non perché egli manchi di intelligenza, bensì del pragmatismo padano del padre, rivelandosi dunque l’ultimo e più originale degli inetti di cui è costellata la letteratura.
Il rapporto con i genitori – la madre, Àlida Polli, è considerata da tutti matta, in realtà si è ritirata nel suo mondo per poter sopravvivere in pace; il padre, significativamente senza nome, è un «ammaccalamiere arricchito», «eroe del proletariato rurale», «calciomane, ipervirile e dunque naturalmente omofobo, tifoso della fica e di chi la castiga» –, ossia il livello psicologico del romanzo, riproduce in miniatura quello macroscopico con il paese natale: è un rapporto che quando va bene è inesistente e quando va male è disforico. Questo perché se da un lato «per la prima volta nella storia la generazione dei padri mangia completamente il futuro a quella dei figli, la fotte in ogni senso», pur pretendendo il massimo della prestazione sociale dai figli, dall’altro, l’impietosa descrizione del «paesello stercoso» (figura di tutti i paeselli del mondo) rende ragione dell’estraneità di Sputacchiera il metamorfico:
«Il paese è quel posto preindustriale, prescientifico, precolombiano e felice di esserlo, che resta sempre uguale quando tutto intorno cambia. Il paese è periferico ma non è periferia: […] il paese, quando chiude gli occhi, sogna se stesso, sta bene dove sta e dove è sempre stato, fuori dai casini, fuori dalla Storia […]. Immune dal bacillo della cultura, ripulito e ingrassato dal boom economico ma eternamente mezzadro nella calotta cranica, il paese […] non ha altro obiettivo a parte reiterare se stesso, in un circolo gastrico chiuso, lavoro-casa-chiesa, dove il battesimo coincide con il funerale, la bocca con lo sfintere».
Nella sua fuga disarticolata da casa e dal suo passato, giocoforza dettata dalla nuova forma che si ritrova, il “transessualizzato” decide di assumere come vero nome quello usato in rete, Carmela Pene, pensando che un nuovo corpo potesse dare vita a una nuova identità, altrove; sennonché, alla ricerca di comprendere e risolvere ciò che gli è accaduto inizia una corsa che, per come è narrata, assomiglia a quella di un elefante in una vetreria: a ogni spostamento, Carmela Pene rompe dei tabù. L’ironia come espediente retorico (ma si direbbe naturale, vista la sua prodigiosa estensione e leggerezza), parallela al dispositivo letterario della transessualizzazione, trascinano all’impazzata l’ignaro lettore non solo nei generi letterari che Ravasio attraversa mediante le vicende di Sputacchiera/Pene, ma anche nelle evidenti citazioni letterarie (per esempio, Kafka e Pirandello), cosicché visto dall’alto questo cammino verso l’illuminazione diventa una colossale parodia: per scoprire se stessi non servono la scienza, la teologia o l’amore, ma solo la scrittura. E questo Alberto Ravasio lo sa. La storia di una metamorfosi non poteva essere narrata dunque che con un linguaggio in continua trasformazione, metamorfico appunto. Non esiste letteralmente pagina nella quale non si contino a manciate, anche combinati, ironia, similitudini e metafore multiple, paranomasie, neoformazioni lessicali, luoghi comuni e frasi fatte usate in maniera distorta, enuneratio, climax, parallelismi: tutti meccanismi, tranquillamente ossessivi, che delocalizzano, spostano altrove, contaminano, sommuovono, confondono, divertono. Come il personaggio di Guglielmo Sputacchiera si sveglia “transessualizzato”, così Alberto Ravasio è in grado di metaforizzare totalmente il mondo con la sua lingua, spingendo il lettore sempre un po’ più in là di dove in genere è abituato a stare comodo, per portarlo di fronte a una realtà scomodissima. E lo fa quasi a tradimento, giocando sulla corda dell’umorismo, visto che forse oggi pochi dispositivi retorici come l’ironia sono capaci di dire cose intelligenti in modo ecologico. Finalmente uno stile regale.
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Copertina – Hello I’m Nick su Unsplash