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Il mondo sgonfio. La piccola indagine filosofica di Eva Meijer sulla depressione

Nel volume “I limiti del mio linguaggio” la filosofa olandese firma un’analisi brutalmente onesta della malattia del secolo, che cerca di ricucire i buchi del mondo

I numeri della depressione sono impressionanti. Stando ai dati riportati dall’ISS e dalla Fondazione Onda in Italia siamo nell’ordine dei 3,5 milioni di persone, per l’Europa intorno ai 35 milioni e, a livello globale, sono più di 300 milioni le persone a cui è stato diagnosticato questo disturbo. Questi numeri enormi sono accompagnati spesso da parole altrettanto fragorose: “malattia del secolo” e “sfida del secolo” sono due degli appellativi più usati.
«Quando si scrive e si parla di depressione si usano spesso parole grosse», scrive Eva Meijer, e ha ragione. Il sottotitolo del suo ultimo saggio però va in direzione opposta: “piccola indagine filosofica sulla depressione”. Di fronte a paroloni, sfide, «mostri, demoni e bestie varie» la filosofa olandese schiera tutta la fragilità della propria storia e del proprio corpo, traccia un itinerario cauto, vasto e intellettualmente multiforme attraverso Wittgenstein, Nietzsche, Sartre, Sylvia Plath, Francesca Woodman, Tracey Emin; ma soprattutto attraverso sé stessa. 

I limiti del mio linguaggio. Piccola indagine filosofica sulla depressione, uscito per nottetempo nella traduzione di Chiara Nardo, è il secondo saggio tradotto in italiano di Eva Meijer, pensatrice olandese che lavora sull’intimità tra animali umani, non-umani e gli ecosistemi. La ricerca di Meijer nasce come incrocio di discipline tanto nei temi quanto, in maniera ancor più evidente, nei modi: c’è il saggio filosofico più classico, ma anche una solida produzione di romanzi, musica e sperimentazioni artistiche. È un esempio brillante di come il pensiero filosofico possa essere una materia più duttile di come siamo abituati a pensarla e di come, in fondo, si possa pensare, bene, con tutto, anche con i momenti più difficili della propria, piccola, vita.

Eva Meijer

Il volume si sviluppa intorno a tre fuochi: la realtà, il linguaggio e la cura. Se il rapporto tra i primi due era già al cuore del Tractatus wittgensteiniano da cui il libro della Meijer prende il titolo, il tema della cura segna il cambio di passo. Un libro come questo parla della depressione, la descrive, ma al tempo stesso cerca, con tutta l’umiltà della prima persona singolare, di fornire degli strumenti che aiutino il lettore a viverla in sé o in chi c’è vicino. La filosofia qui è al servizio della cura di sé e soprattutto dell’altro che è «ciò che conta, ciò che ha valore». La classica dicotomia tra pensare e agire fa presto a dileguarsi. I limiti del mio linguaggio è un gesto piccolo, lungo poco più di cento pagine, che però si fa forza di tutta la sua fragilità per trovare una risposta meno roboante e, sono convinto, più reale, ad un problema reale.

Per prima cosa, sostiene Meijer, la depressione consiste in un particolare tipo di perdita, «quella della realtà». È un vuoto indefinito, «bianco», assente, in cui scivola lentamente tutto «il mondo che gli altri vivono, e che è ancora presente. Ma non è più il mio». L’immagine che mi hanno lasciato i passi del libro dedicati a questo smarrimento indefinito e diffuso (in questi casi è inevitabile, filosoficamente, metterci del proprio) è quella di una realtà che, di colpo, si sgonfia. Come quando da bambino passavo ore nei cunicoli dei castelli gonfiabili e, a forza di andare su e giù, quel luogo diventava più reale e solido che mai; ma poi la sera tornavo e vedevo le luci spente, le torri, gli scivoli e le scale che si afflosciavano, la realtà di quel pomeriggio smarrita nelle pieghe della plastica. Il castello, evidentemente, non era poi così solido come me l’ero immaginato. Vedendolo svanire (ma anche vedendolo ricomparire il giorno successivo) senz’altro imparavo qualcosa: «La depressione ti fa uscire dal mondo, ti offre la possibilità di osservarlo a distanza; e per scrittori e filosofi questo è un bene, aiuta a definire autonomamente i propri giudizi. Lo status quo non fa bene a nessuno, e pensare con la propria testa è molto importante». Mentre racconta, Meijer appare «disciplinata e combattiva», «ottimista» e rigorosa. Non c’è mai una sola direzione, mai una spiegazione univoca e, soprattutto, mai un giudizio né verso di sé né, tantomeno, verso gli altri. I limiti del mio linguaggio è un libro che apre.

Eva Meijer
Eva Meijer

Foucault ha mostrato come la follia, almeno fino alla modernità, non fosse qualcosa di rigidamente interno all’individuo ed opposto alla ragione. La depressione non è una questione individuale, soggettiva, e neanche semplicemente sociale o oggettiva. Meijer mostra come dentro e fuori siano molto più permeabili di come siamo abituati e pensare. Fare buona filosofia riflettendo su un tema globale non significa per forza spogliarsi della propria singolarità, sparendo nell’impersonale. Si può passare da dentro perché «siamo corpi, ed è una condizione che tutti abbiamo in comune tra noi – e anche con gli altri animali» – e con il mondo, aggiungerei, con «un panorama o un bosco» che «può aiutarti facendoti sentire parte di qualcosa di più grande».

Ci sono pagine bellissime in cui si ricorrono linguaggio filosofico e memorie, personaggi e concetti, ricordi di notti insonni e di pagine lette; il ritmo è quasi affrettato, le domande si alternano agli esempi, i paradossi alle aperture. Si disegna un equilibrio instabile che è forse la vera cifra stilistica di questo esperimento letterario – o esperienza letteraria. Ha tutti i pregi e i difetti di un tentativo, e come di fronte a ogni tentativo sufficientemente ardito il giudizio va calibrato sulla base dell’impulso, della vitalità e del desiderio che trasmette, più che su un ideale presunto di correttezza.
Leggendo I limiti del mio linguaggio non si può non cadere vittime del «pregiudizio secondo cui chi è in grado di parlare e scrivere di ciò che gli succede, alla fine è in grado di superarlo. Ma non è affatto così». Francamente mi sono chiesto come sia possibile essere così vicini e, al contempo, estranei a sé, imprigionati in un’alterità devastante e insieme così capaci di dar voce allo iato. La risposta, probabilmente, è che non ci sono garanzie. Con la depressione siamo già oltre i limiti entro cui il linguaggio garantisce una presa solida sulla realtà. L’immaginazione però può far da guida:

«Immagina che nel tuo corpo ci sia un mare. Si agita a ogni tuo passo, quel tanto che basta per farti sentire che sei fatto di acqua. Tu sai che è pericoloso, che ci sono annegate delle persone, che non puoi vivere sott’acqua. Sai anche che ormai non puoi farci niente, non hai via di scampo. Qualche volta l’acqua si alza, poi si abbassa, come le maree, anche se non con la stessa regolarità. Fino a quando a un certo punto continua ad alzarsi e a poco a poco cadi nel panico. Non hai via di scampo, perché ce l’hai dentro di te. Da fuori nessuno se ne accorge, anche se i tuoi occhi si bagnano di lacrime sempre più spesso. Faresti meglio a sdraiarti e aspettare che l’acqua si abbassi, così da poterti muovere di nuovo. Faresti meglio a non sdraiarti perché rischi di annegare.»

È di fronte – o meglio, dentro – agli aspetti più profondi e paradossali della vita che ci si rende conto di quanto il «linguaggio può colmare la distanza dagli altri e allo stesso tempo è ciò che ci separa dagli altri – proprio come la nostra pelle». Il saggio di Eva Meijer è scritto tutto «a fior di pelle», come quest’ultima è un luogo di scambio che accomuna e separa al tempo stesso; dice e contraddice il mistero di un’altra persona, che può diventare il nostro in ogni momento.
Michel Serres scriveva che «una bocca uccide l’altra», riferendosi all’antitesi tra la bocca che parla e, mentre parla, viene meno a tutti gli altri compiti che può assolvere: mangiare, baciare, accarezzare, sentire la realtà che condividiamo con le altre persone e che, quando meno ce lo si aspetta, può sparire. «L’attenzione è l’unica arma che abbiamo» e la cura, di cui l’attenzione fa parte, si dimostra sempre di più come una risorsa fondamentale per il presente.

Immagine di copertina di Francesca Woodman, Self-deceit no 5 Rome Italy, 1978 ©Charles Woodman Courtesy Charles Woodman
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