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Il mistero di Anton Dich in Mamma è matta, papà è ubriaco

«Anton Dich morì ufficialmente di polmonite, seduto in poltrona. Solo. Accadde a Bordighera, l’8 febbraio 1935. Aveva quarantacinque anni. Pace alla sua memoria.»
Nei primi vent’anni del secolo successivo, uno scrittore svedese appassionato di arte ed entomologia di nome Fredrik Sjöberg si aggiudica a un’asta un misterioso dipinto. Raffigura due ragazzine, una mora e l’altra bionda e con le trecce, gli sguardi enigmatici e sofferenti. Il quadro è stato realizzato a Mentone nel 1921, dallo stesso uomo che nel 1935 è morto a Bordighera nella sua poltrona. Solo che, oggi, nel presente, quasi nessuno ricorda il suo nome. I suoi quadri, con poche insignificanti eccezioni, sono stati dimenticati.

Eppure, sostiene Sjöberg, il talento di questo pittore è evidente, così come lo sono le influenze culturali che sceglie di interpretare a suo modo sulla tela: gli sguardi delle due ragazze, così malinconici, sembrano quasi parlare. Chiedono di raccontare una storia, di disseppellire i morti. E nell’accogliere la richiesta, affiora una domanda, che ossessionerà tutta la ricerca dello scrittore: perché Anton Dich è stato dimenticato? O meglio, generalizzando: dopo che tutto è finito, cosa determina la sopravvivenza del nostro ricordo nelle generazioni a venire?

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È questa la genesi di Mamma è matta, papà è ubriaco, edito in Italia da Iperborea nei primi mesi di quest’anno. Un libro che non può definirsi autenticamente romanzo, dal momento che è incentrato sulla ricostruzione delle vite di personaggi realmente esistenti e vissuti, e che però, d’altro canto, è denso di spunti e svolte romanzesche. Dove non arrivano le fonti, documenti cartacei o testimonianze di familiari che siano, arriva la fantasia, che riempie gli strappi di un dettagliato affresco non soltanto della vita di Anton Dich, pittore danese caduto nell’oblio, ma quella di un’intera famiglia, con tutte le sue ramificazioni genealogiche. È anche l’affresco di un’epoca, quella che parte dai primi anni del Novecento e si ferma alle soglie della Seconda guerra mondiale.

È così che non facciamo solamente conoscenza con Anton Dich, uomo tormentato e alcolizzato, caratterizzato da una viltà strutturale che secondo Sjöberg potrebbe essere tra le cause del suo fallimento come pittore. Lo scrittore fornisce anche la fitta rete di relazioni che il pittore ha intrattenuto durante la sua esistenza: in primis quella con la moglie, la vedova di Ivar Arosenius, pittore considerato imprescindibile per la storia dell’arte svedese, e sua figlia Lillan, la ragazza con le trecce bionde del quadro dipinto a Mentone, identificata in seguito come la musa dell’arte svedese novecentesca. A fare capolino tra la moltitudine di figure, è anche Amedeo Modigliani, amico di bevute di Dich, a cui la storia ha riservato ben altro trattamento, mitizzando la sua arte.

È tra aneddoti, reperti e metafore naturali che Sjöberg sviluppa il suo stile ricco e variegato, a ritmo di una cronologia frantumata dallo scorrere del tempo e della dimenticanza, e anche dall’impossibilità di trovare una risposta univoca, la causa regina da cui dipende tutto lo svolgimento e l’intricarsi delle vite dei personaggi. Sembra quasi che sovente l’autore dimentichi il suo oggetto di studio, perdendosi in digressioni sulle vite delle persone che lo hanno circondato. Eppure, la ricerca rimane stabile e coerente, nonostante i continui balzi avanti e indietro, nel presente e nel passato. Ciò che Sjöberg vuole ricostruire è il sostrato di umanità sotto i ricordi dei testimoni ancora in vita, nascosto tra le parole delle lettere e negli archivi polverosi. Superate il determinismo storico, dice Sjöberg, la realtà è infinitamente più complessa, e ciò che è stato può essere recuperato soltanto in maniera parziale e viziata, per quanto possa aiutare l’immaginazione.

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Fredrick Sjöberg

Così, la domanda che ripercorre e ossessiona l’opera rimane senza risposta. O, se si vuole, con una molteplicità di risposte, le quali però non convincono mai l’autore fino in fondo. Certo, la sua interpretazione personale è che si sia trattato di mancanza di coraggio. Dich era nei posti giusti ai momenti giusti, eppure la mancanza di audacia ha determinato la sua rovina. È probabile che anche il caso abbia giocato la sua parte, così come anche la guerra, la costante preoccupazione per risorse economiche sempre a secco e via dicendo.

È nella ricostruzione della vita di Anton Dich e delle persone che gli gravitavano intorno che Sjöberg riflette su uno dei temi da sempre cruciali nella storia umana: la caducità della vita, la sua insignificanza, il destino che, con poche eccezioni, trascina ogni cosa nell’oblio. E il bisogno tutto umano di lottare contro la dimenticanza, anche se forse è una battaglia persa in partenza. Così Mamma è matta, papà è ubriaco non si pone come un’opera che vuole vendicare chi ha perso la sfida contro il tempo. Al contrario, è un tentativo di comprendere l’incomprensibile, di renderlo sopportabile e assimilabile alla coscienza. E questo non può che avvenire tramite lo strumento letterario, che ingolla realtà per sputare storie intrise di invenzione, che però non cessano di essere vere e di parlare della sostanza più intima di cui siamo fatti.



Photo credit: Anton Dich, Hanna e Lillan, 1921

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