Franco Buffoni, poeta, prosatore, accademico, attivista e figura di primo piano dei Gender Studies in Italia, è autore di numerosi libri di narrativa e di poesia, tra cui Poesie 1975-2012 (Mondadori, 2012), Jucci (Mondadori, 2014), Avrei fatto la fine di Turing (Donzelli, 2015) e Betelgeuse e altre poesie scientifiche (Mondadori, 2021). Per i cinquant’anni di Stonewall e la nascita del Pride, pubblica nel 2019 con Marcos y Marcos Due pub, tre poeti e un desiderio, al quale fanno seguito Silvia è un anagramma e Vite negate (FVEditori, 2021). Dirige la rivista Testo a fronte e cura i Quaderni di poesia contemporanea.
Nel mese di ottobre 2023 è uscito per FVEditori il suo ultimo romanzo Il Gesuita, sul quale ha gentilmente accettato di rispondere ad alcune mie domande.
Il protagonista del romanzo è un ragazzo lombardo di 16 anni, Franco, che compie la sua adolescenza nei primi anni ‘60 ed è innamorato di Klaus, uno studente gesuita che ha quasi il doppio dei suoi anni. Cosa significa crescere in un contesto socioculturale che non incontra affatto le proprie idee e aspettative, anzi le stigmatizza?
Significa imparare fin da adolescente ad essere assolutamente ipocrita. Se infatti a quell’età io avessi fatto un esplicito coming out con mio padre, mi avrebbe fatto curare da medici cattolici con conseguenze terrificanti come l’elettroshock o il coma insulinico, frequentemente imposti a chi sgarrava da comportamenti “regolari” (come accadde a Giovanni Sanfratello, il giovane compagno di Aldo Braibanti, di cui ho raccontato nel libro). Un ragazzo intelligente intuiva che avrebbe dovuto mentire sempre, forgiando il proprio carattere nel dolore e nell’introspezione. E anche nella furbizia, per difendersi principalmente dalla famiglia, poi dal contesto scolastico e persino dagli amici. Tutto congiurava per far sì che Franco diventasse ipocrita. Credo che questa sia la risposta più sincera che io possa dare. E anche la più dolorosa.
«Ecco contro cosa dovrò combattere per avere Klaus: la sua fede. Per la mia non ci sono problemi, non vacilla neanche, perché non c’è. Forse non c’è mai stata. Comunque adesso non c’è. Per essere brave persone non credo sia necessario avere una religione che promette premi e castighi, magari pure con ordini tassativi su chi sia lecito amare.»
La figura autoritaria e conservatrice del padre esercita un potere risoluto e oppositivo verso i desideri del figlio; quest’ultimo, se da un lato non può che ribellarsi al proprio genitore, dall’altro non può neppure fare a meno di rassomigliargli. Cosa può dirci della complessità delle relazioni famigliari che il protagonista si trova ad affrontare?
Il gesuita Klaus viene fatto trasferire dal padre del protagonista, persona perspicace e dal fortissimo intuito, terribilmente omofobo. Franco non eredita le caratteristiche esteriori del padre, ma gli assomiglia per carattere e per tempra: e li eserciterà in primis proprio contro il padre stesso. Nel romanzo si racconta anche del rapporto negativo fra padre e madre, che contribuisce a peggiorare la situazione in una famiglia moralmente sfasciata, tenuta assieme solo dall’ipocrisia.
«Mi dice che quel gesuita non lo devo più frequentare. Con il padre sollevare obiezioni o chiedere spiegazioni non serve assolutamente a nulla. I suoi sono ordini e basta.(…) Insomma, se io devo liberarmi del padre, Klaus deve liberarsi dei Gesuiti.(…) Dice che in me riconosce mio padre: stessa determinazione, stessa affidabilità, stessa volontà di comprendere…»
Gli studi classici e il fascino della Roma antica, cui il protagonista rivolge la propria fame di conoscenza e riscatto, si trovano presto a fare i conti con «le cose di oggi» come i movimenti di protesta studenteschi e la controcultura d’oltreoceano. Il rinnovamento delle istituzioni, dell’educazione, del linguaggio erano tanto inevitabili allora quanto ancora necessari ai giorni attuali?
Il protagonista è del tutto affascinato e assorbito dai prodromi delle imminenti rivolte del ‘68 che si respirano già due anni prima a Berkeley, dove si reca diciottenne nel ‘66. In un capitolo de Il Gesuita sono elencate le varie ribellioni che erano lì in atto e Franco decide di sposarle con tutte le sue forze, sconvolgendo per la prima volta i protocolli dell’ipocrisia in cui era cresciuto.
Credo proprio che di queste ribellioni vi sia bisogno ancora oggi contro i retaggi della mentalità patriarcale. Si tratta anzitutto di una necessità di tipo culturale. Occorre studiare molto, capire che una ribellione contro l’eterosessismo e la costruzione di un mondo altro sono sempre necessarie. In questo processo fondamentale è la riscoperta di alcuni valori dell’epoca classica che, pur se con molti limiti, sul piano della possibilità di relazione fra persone dello stesso sesso era certamente più tollerante rispetto alle civiltà culturali abramitiche.
«Il termine ‘gay’ si sta enormemente diffondendo come sinonimo sciolto e disinibito di ‘homosexual’ e presto uscirà l’edizione statunitense del periodico intitolata “Gay International”. Penso che per me fino ad oggi ‘gay’ stava solo in “The Rape of the Lock”, Il ricciolo rapito” di Alexander Pope, filone eroicomico tipo “La secchia rapita” del Tassoni: “Belinda smiled and all the world was gay”. E mi viene da ridere.»
La musica sembra essere un altro personaggio fra i personaggi che compongono l’intreccio e si avvicendano nel corso della narrazione. Possiamo affermare che il romanzo abbia una sua propria colonna sonora?
Nei primi capitoli del libro, la storia dell’innamoramento di Franco per Alberto (un ragazzo eterosessuale che non può ricambiarlo, pur essendogli molto amico) è accompagnata da alcuni successi musicali dell’anno 1964, e nel corso delle pagine seguenti vengono menzionati anche altri titoli di canzoni degli anni successivi. Quindi il romanzo ha in effetti una sua propria colonna sonora. Un giovane poeta veneziano di origini albanesi, Julian Zhara, ne ha ricostruito una playlist su Spotify.
«Ecco, se l’anno scorso il leitmotiv della mia storia – chiamiamola così – con Alberto è stato senz’altro quel pezzo cantato da Mina “Un anno d’amore” – in particolare nella versione francese di Dalida, dal titolo per me appropriatissimo “C’est irréparable” – per il 1966 sceglierò proprio questo “Nessuno mi può giudicare”. Devo informarmi su chi sia la cantante.»