«Sia pure sotto un cielo di smalto turchese, quel venerdì, e per tutto il periodo della peste, la nostra città si sarebbe detta disegnata a matita, con la grafite F, la più dura e violenta sul bianco della carta. Forse per questa ragione nel mio racconto mancano i particolari, e affiorano solo di rado i nomi delle strade e le tappe della sua storia civica.»
La città presa d’assedio da un’epidemia letale è uno dei protagonisti di La peste nuova (La nave di Teseo, 2020) di Fulvio Abbate, radicale riscrittura del precedente La peste bis (1997), nonché omaggio “eroicomico” alla Peste di Albert Camus.
In questa città ordinaria, “media”, indefinita, cammina Guido Battaglia, scrittore, per la precisione inventore di barzellette “inattuale”. La peste nuova, il caldo di un’estate opprimente che sembra interminabile, il tappeto sonoro delle sirene delle ambulanze e l’andirivieni delle camionette del genio militare conferiscono alla città un’atmosfera sospesa, quasi irreale. Unico elemento di cruda realtà di questo universo scarnificato sono i corpi.
Ci sono corpi che partono, come quello di Valeria, autrice insieme a Battaglia delle sue opere migliori e interlocutrice privilegiata, che scappa prima di rimanere intrappolata in città; e la “presenza dell’assenza” di quel corpo provoca in Battaglia un senso di vuoto straniante.
Ci sono corpi che si ammalano, si sfigurano e muoiono, come quello di Enza, giovane pornodiva nonché madrina della squadra di calcio locale, la cui morte viene vissuta dalla popolazione come scandalo inaccettabile – forse per la sua età acerba, forse perché, prima di contrarre il morbo, aveva cercato di vendere un po’ di speranza alla comunità angosciata – e il cui feretro viene accompagnato da un corteo degno delle più insigni autorità.
Ci sono i corpi meravigliosi e invitanti che due sconosciute offrono in premio a Battaglia se sarà in grado di scrivere la barzelletta che salverà la città, forse l’umanità intera, dal bacillo mortifero.
La città, gettata nell’assurdo dalle altrettanto assurde e implacabili leggi naturali del bacillo, si nutre di speranze. La speranza che l’unguento smerciato da Enza abbia poteri taumaturgici, la speranza che medici e infermieri assolvano diligentemente al mandato eroico conferito loro. La speranza che qualche-scrittore di barzellette-intrattenitore “attuale” possa distrarre dalla consapevolezza della propria vulnerabilità.
La speranza di Battaglia, una volta compiuta la sua missione, di poter rincontrare le belle sconosciute e così riscuotere il suo premio.
Battaglia, che nel frattempo sta pensando anche di provare a concorrere per un posto da narratore di barzellette-intrattenitore “attuale” nell’autoproclamato pantheon delle patrie lettere, cede alla tentazione incarnata dalle sconosciute. Aiutato dall’anestesista Sergio Zama, comincia a scrivere la sua barzelletta “salvifica”, che ha per protagonisti due personaggi di nome Salvatore (omaggio di Abbate ai suoi sei Salvatore anarchici di Zero maggio a Palermo) e dove al centro della narrazione troviamo nuovamente un corpo, un corpo violato in un certo senso, ingannato da una speranza tanto arbitraria quanto inaffidabile.
Il giorno del concorso arriva e Battaglia si presenta, “travestito” di tutto punto, “travisato” da scrittore-intrattenitore (Abbate usa sapientemente “travisarsi” in luogo di “travestirsi”), stretto al cappio di una cravatta Emilio Pucci. Ma poi se ne va senza aver scritto una riga, rinuncia a cimentarsi nella prova di narrazione realistica e consolatoria. Preferisce rimanere ancorato alle promesse carnali delle irresistibili sconosciute, consapevole che questa scelta forse lo confinerà ai margini di un universo al quale si sente estraneo:
«Perché l’inventore di barzellette non ha ragioni di manifestare passione, una volta esaurito il compito, collocata la storia nello spazio immateriale del mondo, della parola e del discorso, dell’intrattenimento, del Milk Bar.»
Gli echi e i rimandi al modello Camus si fanno a questo punto particolarmente interessanti perché scrittori e medici sono, con ruoli curiosamente scambiati, anche i protagonisti della Peste nuova.
Dove in Camus il medico Bernard Rieux acconsente a farsi aiutare dal modesto impiegato Grand – fermo da anni alla prima frase di un romanzo che vuole consegnare perfetto a un eventuale editore, consumato dalla fatica dello scrivere quell’unica frase ma instancabile compilatore delle statistiche sull’andamento del morbo a Orano; in Abbate, Guido Battaglia sceglie come assistente e ispiratore per la stesura della barzelletta un medico, di più, un anestesista, che lo accompagni agli eventi letterari, così come Terrou, altro comprimario di Rieux nella gestione dell’epidemia e autore dei taccuini che si riveleranno l’architrave narrativa della Peste, accompagna Rieux nelle visite ai malati.
L’anarchica fratellanza etica di Camus in Abbate è assente e al suo posto assistiamo al graffiante disincanto con cui lo scrittore Battaglia rinuncia sia alla competizione con le figure di riferimento attuali, i medici, sia con gli altri scrittori per opporvi il suo corpo desiderante, il suo silenzio rispetto a un discorso che non gli appartiene.
Una forma di rivolta, comunque.
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La donna e il dragone, dal manoscritto “Apocalisse di Silos”, 1091 d.C.