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Come le foto di Diane Arbus: Il corpo in cui sono nata di Guadalupe Nettel


«Tengo vidrio molido en los huesos»
Gabríel García Marquez
La increíble y triste historia de la cándida Eréndira y de su abuela desalmada

Città del Messico, 27 maggio 1973

Una nuova vita, una storia sconosciuta, un corpo appena venuto al mondo che non ha consapevolezza di sé, né del presente né del futuro. Una bambina non può sapere che «un neo bianco, che altri chiamano voglia, sulla cornea dell’occhio destro», un punto così piccolo, può condizionare un’intera esistenza.

Barcellona, 2011

Una donna è pronta a raccontare la sua storia, quella della sua famiglia e del suo paese, e decide di farlo parlando del suo corpo, dei momenti di evoluzione – e rivoluzione – ma soprattutto di involuzione. Il corpo in cui sono nata di Guadalupe Nettel (La Nuova Frontiera, traduzione di Federica Niola) è esattamente questo: il ritratto dell’unicità di un corpo spesso percepita come anormalità dagli altri, proprio come accade nelle immagini della fotografa Diane Arbus che ha fatto della diversità la prerogativa della sua poetica. La voce narrante – la stessa autrice – si lascia andare a un flusso di coscienza necessario e consapevole, una lunga confessione alla sua psicanalista, la dottoressa Sazlavski.

Guadalupe Nettel

Quel piccolo neo bianco che copre l’iride dell’occhio destro dalla nascita, all’apparenza qualcosa di insignificante, costringe l’autrice già da bambina a una serie di esercizi per sviluppare l’occhio pigro. Ogni giorno indossa per svariate ore un cerotto «color carne che copriva il viso dalla parte superiore della palpebra all’inizio dello zigomo». Non c’è stata una mattina in cui non si sia opposta a quel rituale infernale che, nonostante la lotta, non è riuscita mai a evitare. Il giorno in cui l’oculista presso il quale è in cura annuncia la fine di quella tortura rappresenta il ritorno alla libertà: per ora non si può fare altro, quando sarà più grande la ragazzina verrà sottoposta a un’operazione, sentenzia il dottor Penteley.

«Peraltro la vista non era l’unica ossessione della mia famiglia. Sembrava che i miei genitori considerassero l’infanzia come una tappa preparatoria durante la quale si devono correggere i difetti di fabbrica con cui si è venuti al mondo», scrive Nettel che grazie alla sua tendenza a incurvare le spalle si guadagna il soprannome di cucaracha, scarafaggino, preludio della sua futura dedizione per Gregor Samsa. Incurva le spalle come se volesse proteggersi da qualcosa e quando non può farlo si arrampica su un grande albero collocato proprio di fronte al palazzo in cui vive. Una baronessa rampante, un Cosimo Piovasco di Rondò nel bel mezzo di Città del Messico. Le continue pressioni che la bambina subisce tra le mura domestiche non la aiuta di certo a rapportarsi con gli altri: un senso di disagio e inadeguatezza è sempre pronto a fare capolino, ma lei non si lascia intimorire dal suo corpo.

Sono gli anni Settanta e Guadalupe e il fratello minore frequentano l’unica scuola montessoriana della città: i genitori – psicanalista il padre, studiosa la madre – hanno idee progressiste e vogliono che i loro figli siano in grano di scegliere. Con il passare del tempo l’autrice si avvicina alla lettura, i suoi libri preferiti sono Il ritratto di Dorian Gray e Il diavolo nella bottiglia e, quasi come fosse un processo naturale, approda alla scrittura. La sua maestra si accorge di quella propensione e decide di organizzare un incontro letterario e darle così l’opportunità di esprimersi. La bambina le fa giurare che un adulto sarebbe sempre stato al suo fianco fino a quando non sarebbero arrivati i genitori: quei primi racconti avevano come protagonisti i suoi compagni di classe e lei era sicura che, una volta terminata la lettura, avrebbero inneggiato alla vendetta. E invece no, nessuna vendetta, solo entusiasmo e grande ammirazione, e incredulità e sbigottimento da parte della piccola scrittrice.

I genitori credono nella libertà e nel progresso non solo riguardo l’educazione dei figli, ma sono fermamente convinti che la vita familiare debba basarsi sul libero arbitrio e sull’abbandono dell’esclusività. Ma quella libertà sessuale, quel regime di «coppia aperta», finisce per portarli alla separazione. La libreria vuota del padre e la sparizione di tutti i dischi dei Beatles e di Simon & Garfunkel sono l’atto finale di un esperimento mal riuscito. I figli provano in qualche modo a adattarsi alla nuova vita e, poco dopo, alla convivenza con la nonna materna che segue la decisione della madre di trasferirsi in Francia per completare gli studi. Vivere sotto lo stesso tetto della nonna equivale a sentirsi sempre sminuita rispetto al fratello, perdere ogni libertà, essere costretta a indossare vestitini di pizzo e scarpette verniciate, non poter essere una lettrice onnivora. Ma ci sono due nuovi appigli per la salvezza: il calcio e una copia di La increíble y triste historia de la cándida Eréndira y de su abuela desalmada di Gabríel García Marquez sottratta con l’inganno e letta e riletta in clandestinità. «Tengo vidrio molido en los huesos» scrive Marquez, e niente può descrivere meglio la fragilità di questi mesi di cambiamento.

Nei primi anni di separazione i bambini vedono spesso il padre, ma quegli incontri vanno via via diradandosi, fino a quando sembra sparito nel nulla. Solo dopo molto tempo lo scopriranno «rinchiuso nel Reclusorio Preventivo Norte, conosciuto anche come Norte, un carcere riservato a chi non aveva ancora avuto un processo definitivo». L’accusa – pare ingiusta – è di peculato.

Nel 1984 Guadalupe e suo fratello raggiungono la madre ad Aix en Provence. Si tratta di ricominciare tutto da capo, farsi accettare, inserirsi, con un nuovo livello di difficoltà: bisognava farlo in una nuova lingua di cui non riconoscono né il suono né quegli accenti al contrario. Sono gli anni di Blaise, della sua amicizia disinteressata e sincera, e di Sophie meglio nota come «la piacevole illusione di aver trovato una vera amica», della derisione per aver creduto nell’amore corrisposto del ragazzo più bello della scuola, e dell’estate della colonie de vacances alle Gole del Luberon. Per molti ragazzini francesi si trattava di un’esperienza meravigliosa, ma Nettel sentiva che qualcosa sarebbe andato storto. La prima sera un ragazzino, un certo Pierre, annuncia in pompa magna la sua intenzione di fare sesso con una «meuf» – una ragazza vergine – e la designata sarebbe stata proprio Guadalupe che, però, sa come difendersi e guadagnarsi – di nuovo – l’approvazione degli altri compagni e delle altre compagne di tenda. Quella sera Pierre se ne tornò a dormire con il naso sanguinante e una serie di lividi sparsi qua e là. Durante la colonie arriva anche la festa del 14 luglio e Guadalupe sparisce in compagnia di un giovane tunisino. Quando riceve la notizia dagli animatori del campo, la madre è infuriata e alla fine dell’estate rispedisce la figlia in Messico, dalla nonna.

Potrebbe sembrare una vera e propria tragedia ma, in realtà, è un momento di accettazione – e riscoperta – delle proprie origini. Prima di lasciare Aix, infatti, Guadalupe ascolta una lezione di Octavio Paz al Festival d’Aix di quell’anno:

«In bocca a lui, per più di un’ora lo spagnolo messicano smise di essere il dialetto intimo che io, mia madre e mio fratello usavamo per comunicare, e si trasformò in un materiale malleabile e splendido. Le sue poesie parlavano di pioppi d’acqua, di alberi del pepe rosa e di ossidiane, di teschi di zucchero, del quartiere Mixcoac, di cose e luoghi che anch’io avevo amato in un tempo remoto e, come compresi in quel momento, non del tutto dimenticato. In poche parole ricordai chi eravamo […] Mi dissi che se un giorno avrei scritto, l’avrei fatto in quella lingua».

Il ritorno a Città del Messico è un momento di riconciliazione: non ha più bisogno di fare come Cosimo e rifugiarsi su un albero. La scoperta di Kundera, l’amicizia di Camila che non è solo un’illusione, ma soprattutto il momento in cui Guadalupe deve affrontare la questione del suo occhio pigro e la madre è determinata a usare tutti i suoi risparmi. Consulta un medico di San Francisco e il responso è inaspettato: l’operazione è inutile, la faccenda irrisolvibile. A questo punto ci si aspetterebbe rabbia e disperazione, ma in realtà per Guadalupe è una vera liberazione. Negli anni ha provato a convivere con il suo corpo, ad accettarlo, prendendo spunto dalla vicenda di Gregor Samsa ma trovando un nuovo epilogo.

L’espediente del flusso di coscienza, la decisione di rendere esplicita la presenza della sua psicanalista e il silenzio di quest’ultima sono un modo per rivelare che un percorso di accettazione è possibile seppur doloroso.

Più che aria
più che acqua
più che labbra
leggera leggera
Il tuo corpo è l’orma del tuo corpo.

Sono i versi di una poesia di Octavio Paz e sembrano essere stati scritti per donare di nuovo la vista a un’abile narratrice. Con Il corpo in cui sono nata, un romanzo di materia e memoria, Guadalupe Nettel vuole parlare sì a tutti ma soprattutto alla sé stessa bambina per provare a stringerla in un abbraccio.



In copertina ritratto di Guadalupe Nettel di Mely Avila


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