Autrice di un unico romanzo, moltiplicato per venti. Così Alberto Arbasino descrive l’intera produzione letteraria di Ivy Compton-Burnett, il cui Capofamiglia è stato recentemente pubblicato in Italia dalla casa editrice Fazi. La ragione più profonda che si cela dietro la continua ripetizione, ce la fornisce Compton-Burnett stessa: «La storia si ripete! E ha già cominciato. Funziona sempre nello stesso modo. E la vita familiare, nella sua essenza, non cambia mai […]. I rapporti umani sono sempre gli stessi!». E dunque, anche in questo romanzo la vera protagonista è la fitta rete di legami e rapporti conflittuali che tengono insieme i componenti di una famiglia come tante, ammantata di perbenismo e bigottismo come solo le grandi famiglie di tarda epoca vittoriana sanno essere.
Perno fondante, sia dal punto di vista sociale ed economico, sia da quello narrativo, del nucleo è il personaggio di Duncan Edgeworth, appunto il capofamiglia. Un uomo dai tratti arcigni e indifferenti, abituato a dominare chi lo circonda. Gli fa da contrappunto la sottomessa moglie Ellen, destinata a una morte prematura, e poi le figlie, Nance e Sybil, la prima sarcastica e sprezzante, la seconda più mite e devota, e infine il nipote Grant, giovane donnaiolo attaccato ai soldi.
Il lutto familiare è l’evento che sconvolge i precari equilibri esistenti, e spinge il capofamiglia a cercare una nuova consorte, innescando un crescendo fino a un parossismo di quadri grotteschi e ironici, in cui i personaggi si colpiscono a vicenda a suon di battute apparentemente banali e quotidiane, eppure intrise di ambiguità e significati non detti, che costituiscono la vera sostanza del romanzo.
Come gli altri romanzi di Compton-Burnett, la narrazione si dispiega attraverso l’intreccio dei dialoghi dei personaggi, che riducono gli interventi narratoriali a brevi commenti laconici e taglienti. La parola, ciò che si pensa e si vuole (o no) dire, sembra essere l’oggetto di indagine privilegiato, nella sua espressione più quotidiana e ordinaria e per questo così straordinariamente densa di significato.
I personaggi sulla scena non affrontano mai direttamente il contenuto profondo dei loro conflitti, preferendo nascondersi dietro le parole, commenti sprezzanti e sarcastici, che nella loro ambigua sfacciataggine rivelano tutti gli orrori e i retroscena che si compiono lontano dal set principale del tipico salotto familiare. Ciò che interessa all’autrice, sembra, è la natura umana più minuta, che consiste di eventi minimi e insignificanti, che tuttavia diventano pretesto per un dispiegamento profondo.
Attraverso una tecnica narrativa che, in un certo senso, sembra anticipare quella comportamentista alla Hemingway, Compton-Burnett scrive una storia a doppia stratificazione. Se a un livello superficiale si instaurano infatti i battibecchi per minuzie, le chiacchiere di circostanza e quadretti di vita familiare certamente ispirati a modelli tradizionali come i lavori della Austen, Eliot e Charlotte Brontë, a un livello più profondo viene installata la trama delle costanti e frastagliate tensioni che rimangono sempre al margine della parola, in uno spazio che si inserisce tra il sottinteso e il non detto e si dispiega attraverso la giustapposizione delle salaci battute dei personaggi. È a questo substrato che appartiene il contenuto di straordinaria novità della scrittura di Compton-Burnett.
Il contenuto umano che ci viene raccontato è esente da ogni senso di dignità e di sofferenza, alieno a qualsiasi concetto di nobiltà d’animo e di morale. La famiglia Edgeworth svela così, battuta dopo battuta, la vera pasta che si cela al di sotto dei modi raffinati e dei rituali sociali: egoismi e invidie, attaccamento ai soldi e al potere e soprattutto una rabbia repressa, tumulata da strati di rigida educazione e convenienza.
Altro fattore importante, e particolarmente interessante, è l’interesse di Compton-Burnett esclusivamente per il nucleo familiare – e nient’altro. La realtà esterna scompare, diventa rarefatta poiché inutile. Non c’è un chiaro riferimento spazio temporale, possiamo solamente supporre dai modi, dal parlare affettato e tuttavia uniforme dei personaggi, che la storia potrebbe essere situata alle soglie del ventesimo secolo, ma nulla è certo, poiché d’altra parte non è il mondo esteriore, la vita mondana o cittadina, così strettamente legata alle contingenze storiche e politiche, ciò che interessa all’autrice. In questo senso, sembra che le vicissitudini della famiglia Edgeworth vengano spogliate di ogni elemento immanente, per trascendersi in una dimensione che solo all’apparenza appare frivola e sarcastica, ma che nasconde in realtà un alone mitico: la storia è sempre la stessa, e si ripete, in un circolo senza vie di fuga, ossessivo e tragico nel suo eterno ri-compiersi.
E la storia della natura umana che Compton-Burnett ha imparato, che maniacalmente riscrive per tutta la vita, è sempre, dolorosamente, la stessa: una serie di quadri intrisi di finzione e maniera, in cui la parola tradisce le emozioni e i sentimenti repressi proprio nel momento stesso in cui decide di non chiamarli direttamente per nome.
Photo credits
Translucent Fragments of a Broken Family, Kenneth Agnello