Durante il secondo lungo lockdown, ho iniziato ad acquistare online libri fuori catalogo. Diversissimi tra loro, connessi da niente se non dal fatto di non essere più in commercio.
Sul perché sia avvenuto ciò nella mia mente ci si potrebbe interrogare a lungo. Che sia stato per nostalgia di un passato recente che permetteva di andare a caccia nelle librerie dell’usato, nei mercatini, nelle bancarelle casuali – forse era una nostalgia della mia Milano, nei fatti – o perché con il tempo sto imparando che, come dice una persona a me molto cara, forse mi piace stare dalla parte di chi perde. E i libri fuori catalogo hanno senza dubbio perso sotto ogni punto di vista: in economia, in visibilità, in prestigio, destinati a rimanere appannaggio di pochissimi. Allora lode a Cliquot, alla collana Biblioteca e ai suoi testi che riemergono dall’oblio, al suo riportare alla luce le pagine ricoperte di ragnatele, stazionanti nella penombra troppo a lungo. Perché un libro può essere fuori moda e avere ancora qualcosa da dire.
Il bambino di pietra. Una nevrosi femminile è l’opera che fa guadagnare a Laudomia Bonanni la finale dello Strega nel 1979. Quell’anno a vincere è Primo Levi con La chiave a stella; Bonanni arriva terza. Andando a ritroso nel tempo, nel 1960 l’autrice vinceva il premio Viareggio con il suo primo romanzo, L’imputata, e nel 1964 il premio Selezione Campiello con L’adultera.
Ancora indietro, nel 1949 Montale paragonava la sua scrittura a quella del Joyce di Gente di Dublino. Ma è evidente come questo giudizio non sia bastato a dare lustro eterno – o quantomeno particolarmente longevo – all’autrice, che vede nel 1982 il suo Le droghe fallire e diventare un grande insuccesso per poi assistere al rifiuto del suo editore nel pubblicarle quell’ultimo La rappresaglia.
Oggi potremmo gridare all’ingiustizia ma le case editrici non vivono di sola gloria, ed è bene ricordarlo. Negli anni Ottanta la scena letteraria era andata oltre, i gusti erano cambiati, un diario come questo non avrebbe mai potuto ottenere le vendite di un Il nome della rosa.
Si parla di diario perché la narrazione di Il bambino di pietra è in prima persona: la protagonista Cassandra scrive queste confessioni sotto esplicita richiesta del suo psicanalista, da cui si è recata per curare una nevrosi (a lungo si è vista questa narrazione, considerate le sue caratteristiche, come autobiografica, anche se Bonanni ha, a suo tempo, smentito questa supposizione).
Ma a cosa serve scrivere di sé per analizzarsi e farsi analizzare, nel momento in cui anche solo posare la penna sulla pagina implica l’esistenza di un filtro? È un interrogativo simile a questo quello che si intravede implicito tra le parole della protagonista.
La scrittura del sé finalizzata all’autoanalisi sembra essere fallace fin da un diario ben più noto, quello di Zeno – esplicitamente citato in un punto del romanzo relativamente al tema delle ultime sigarette. Anche in quel caso, come in questo, è lo psicanalista a chiedere al paziente di scrivere; anche in quel caso, come in questo, c’è nel protagonista una consapevolezza del proprio male a cui segue però un sostanziale scetticismo nei confronti dell’analisi.
«Non ho mai capito precisamente che si dica sul lettino dell’analista, sedute a logorrea per anni, mi è sempre riuscito incomprensibile che uno si metta lì steso a sviscerarsi l’intimità. Chiunque sa che si raccontano minutamente i sogni e vengono interpretati. Io comunque sogno poco o non me ne ricordo, incubi confusi irrecuperabili. Intanto non gli farò leggere fin qui.»
Qui però la narrazione non è affatto inattendibile, tutt’altro: di fatto diventa volta a svelarsi in primis dinanzi a se stessa. E quella frase incipitaria di tutto il romanzo «E va bene, provo a scriverlo» è emblematica: un confessarsi svogliato, gentilmente concesso, forse un po’ rassegnato, a cui segue però un graduale gusto per la comprensione intima. «Mi sono messa sul serio a scrivere […] l’intenzione era di un resoconto secco, quasi registrato. Ma mi ha preso la mano»: l’approccio iniziale era legato a una volontà di scrittura sorvegliata, contraria per definizione a quella diaristica nella forma richiesta a Cassandra. Ma alla donna scrivere piace, e inizia a intravedersi lentamente un disegno, inizia a srotolarsi, parola dopo parola, la storia reale e nuda di un paradigma femminile.
Il diario di Cassandra diventa una narrazione profondamente femminile – impossibile non pensare a quello di Valeria Cossati, protagonista di un altro grande romanzo in forma diaristica modernissimo e scandalosamente fuori catalogo, il Quaderno proibito di Alba de Céspedes (1954).
È femminile la sofferenza descritta e lunga tutta una vita: l’ignoranza in cui è tenuta rispetto alla sfera sessuale, il dolore nel passaggio da bambina a donna, la vergogna per la propria corporeità. Ma anche la percezione, sconvolgente e inspiegabile: «avevo intercettato non so come che mia madre non mi voleva, era stato mio padre a volermi. Ma i due maschi nati dopo essa sembrava averli voluti appassionatamente». Si legge ingenuità ma anche una velata forma di consapevolezza votata alla rassegnazione.
Il mondo femminile attorno a lei non è certo descritto con toni diversi: spregiudicatezza muliebre condannata, aborti la cui colpa risiede solo nella donna («ma lui non sapeva niente, nemmeno che la moglie fosse incinta, era all’oscuro di tutto. Era innocente, lui»).
E con iniziale reticenza, inizia a snocciolarsi la descrizione dei rapporti con l’altro sesso: la mancata educazione sentimentale e l’amore per i personaggi morti piuttosto che per i coetanei in carne e ossa, salvo poi vivere la prima «esperienza bruciante» che forse non era «nemmeno un’esperienza». Ma è solo nella seconda parte della narrazione che Cassandra avrà il coraggio di svelare una percezione inconfessabile, che la fa sentire «donna a mezzo busto», a metà. E cruciale l’assenza di figli nella vita di Cassandra, anche perché, come mette in luce Dacia Maraini nel proprio discorso di prefazione e come si legge in epigrafe, «non si froda la natura impunemente».
Ma qual è la natura della donna?
La prosa è densa ma scarna e priva di retorica eccessiva e inessenziale, come la spontaneità di una scrittura intima dovrebbe garantire. La densità è anzi data proprio dall’accumulo, reso possibile dalla fitta punteggiatura. In rari casi si sfiorano i limiti del resoconto privato non destinato a un pubblico, ma senza mai valicarli (esempio, l’attacco del capitolo 8: «Spartizione delle cose della nonna. Nella sua camera. Le cose tenute gelosissime in camera fino alla morte. Avevano aperto cassetti e bauli, messo tutto all’aria. Entrai e rimasi»).
Numerosissimi gli incisi parentetici, a voler cogliere delle considerazioni casuali su di sé, dei voli pindarici dell’ultimo attimo che forse meritano di rimanere impressi nero su bianco, di essere ricordati, che possiamo quasi immaginare segnati in fretta dalla protagonista.
La comprensibilità letterale rimane sempre garantita, salvo avere dubbi sul significato ultimo del paradigma esistenziale di Cassandra: ma come si fa ad avere certezze su un’esistenza?
«E devo frugare nella memoria dell’infanzia?»
«Tutto quello che resta nella memoria è sempre operante a livello di coscienza.»
«E sotto il livello?»
«Prova a nuotarci.»