L’opera letteraria di Cesare Zavattini vola oltre i confini nazionali, europei e oltreoceano, e sbarca nel lontano Giappone.
A oltre novant’anni anni dalla pubblicazione, il suo primo libro, Parliamo tanto di me, è stato tradotto e pubblicato in Giappone alla fine dello scorso anno da una delle principali case editrici nipponiche, la Kobunsha Co. Ltd., che fa parte del celebre gruppo Kodansha (risalente al 1911, ha sede vicino a Tokyo e a New York). Quest’opera, scritta da Zavattini a 27-28 anni al capezzale del padre morente, pubblicata da Valentino Bompiani nel 1931, segnò l’esordio dello scrittore luzzarese nella narrativa: un successo clamoroso, accolto con enfasi persino da Benedetto Croce per la novità rivoluzionaria di temi e di scrittura.
La traduzione e la curatela del libro si devono a Satoko Ishida, ricercatrice e docente di letteratura italiana presso la Nagoya University of Foreign Studies. La professoressa, da anni attenta, esperta studiosa di narrativa e saggistica italiana, e in particolare dell’opera di Zavattini, ha dedicato allo scrittore, nonché artista, uomo di editoria e di cinema, operatore culturale, innumerevoli articoli, saggi critici, e nel contempo ha partecipato e partecipa a conferenze di carattere internazionale.
La pubblicazione del Parliamo tanto di me in lingua giapponese rappresenta un evento di significativa importanza non soltanto per la diffusione della cultura italiana nel mondo, ma soprattutto per l’interesse crescente che si sta diffondendo in Giappone nei confronti della produzione zavattiniana. Il progetto si deve alla collaborazione tra la studiosa Satoko Ishida, l’agenzia letteraria Japan UNI Agency e l’intermediazione degli eredi di Zavattini. Anche questa traduzione si inserisce nel percorso di valorizzazione del patrimonio documentario dell’Archivio Zavattini conservato a Reggio Emilia presso la Biblioteca Panizzi: un capitolo nuovo nella lunga storia di scambi culturali tra Italia e Giappone, che conferma il valore universale dell’opera zavattiniana.
Abbiamo potuto rivolgere alcune domande a Satoko Ishida, che ringraziamo per la sua generosa disponibilità.
Quanto era conosciuto Zavattini in Giappone quando lei si è imbattuta nelle sue opere? Il cinema neorealista di Za e De Sica era più noto dei suoi libri, allora come oggi? Come è stato giudicato nel Suo Paese? È stato capito, apprezzato? Lei conosceva i suoi film neorealisti? (tra parentesi, tempo fa ho visto il film del regista Wim Wenders, Perfect Days, pellicola magnifica che si svolge in Giappone, ecco – ho pensato – l’uomo comune dei film di Za e De Sica, l’antitesi dell’eroe, con una concezione del tempo dilatata sull’ “attimo mai banale”, definizione zavattiniana).
Quando mi sono imbattuta nelle sue opere, intorno al 1998-1999, il nome di Cesare Zavattini come autore letterario non era conosciuto in Giappone. Invece, come sceneggiatore del cinema neorealista, i conoscitori del cinema lo conoscevano. Il Neorealismo, dal primo momento in cui è stato introdotto nel 1949, ha dato un grande impatto al Giappone nel dopoguerra. Questo impatto non era solo per il realismo inedito nella storia del cinema, ma anche perché molti spettatori giapponesi hanno trovato nei film neorealisti le realtà dello stesso Giappone che affrontava le difficoltà sociali nella devastazione dovuta alla guerra. È interessante leggere che alcuni spettatori di allora sostengono con meraviglia che avevano ritrovato il vero Giappone più nei film neorealisti italiani che nei film giapponesi dell’epoca. Penso dunque che il Giappone sia uno dei paesi in cui il cinema neorealista è stato compreso fino alla sua essenza e apprezzato di più, seriamente. Non ho visto Perfect Days, ma l’idea che un vero eroe può essere un uomo comune che conduce una vita umile e ordinaria è molto giapponese e sono d’accordo che ricorda l’uomo comune dei film di Za e De Sica.
Ci può spiegare perché e in che modo all’inizio la visione di Za le è sembrata “buddista”? Da quale prospettiva, e per quali connotazioni?
Anzitutto devo dire che non sono un’esperta del buddhismo e non conosco i termini precisi per raccontarlo, ma io sono nata e cresciuta in un tempio buddhista. Quindi, anche se non ho mai studiato la teoria del buddhismo, ne ho sempre vissuto l’atmosfera. La visione zavattiniana mi è parsa “buddista” per tre ragioni. Innanzitutto perché, nelle sue opere, gli uomini perdono la loro superiorità e si allineano alle altre forme di vita come gli animali e perfino gli oggetti. In tal senso, trovo molto interessante la domanda che tormenta Tic: «I sassi hanno un’anima?». Insieme all’episodio del salvataggio dello spazzolino chiamato Giovanni, si trova nel capitolo XV in Parliamo tanto di me. In secondo luogo, sembra che Zavattini abbia una visione del mondo in cui regna il dolore. E infine, leggendo le sue opere, il mondo appare come un luogo nel quale tutti gli elementi circolano, si uniscono e si riuniscono continuamente. In questo senso, invece, è emblematica la storietta raccontata nel capitolo IV in cui Cesare confessa le proprie inquietudini nei confronti dei fatti dolorosi accaduti nel mondo. Ecco, tali sue osservazioni compassionevoli sono prettamente buddhiste.
La “visione umana” l’ha colpita subito, racconta. Questo è importante e interessante. Vuole raccontare come è nato questo suo incontro profondo con Zavattini? Attraverso le immagini oppure le parole?
Le prime opere zavattiniane che ho letto erano Al caffè e gli altri racconti raccolti in Italia Magica, curata da Gianfranco Contini. Non ricordo se avevo visto qualche suo film prima di questa lettura. Comunque ho fatto caso al nome di Zavattini attraverso le sue parole.
Trovo singolare tale accostamento di Za a una filosofia orientale. Probabilmente l’elemento di base, il trait d’union, consiste in una filosofia dell’attenzione verso di sé e verso gli altri, una filosofia della gentilezza, della compassione? In una parola, della Pace?
Come ho detto anche poco fa, la compassione è un elemento chiave per il buddhismo. Questa compassione deriva dalla particolare visione di sé e degli altri: non sono distinti ma intrecciati l’un l’altro. Anche per Zavattini, l’io è uguale agli altri, sono in un rapporto speculare. Se ognuno di noi potesse avere questa idea e pensare agli altri veramente come a se stesso, si realizzerebbe la Pace…
«Che cos’è la vita?». Un interrogativo che permea il carattere di Za sin dalle prime storiette del Parliamo tanto di me, proprio perché si trova al cospetto della morte di suo padre. È d’accordo? Za non abbandonerà mai la ricerca della Verità in se stesso, negli Altri, nel mondo. «Vivere è sapere, la Pace è sapere», dice Za. Lei ha colto il cuore dell’esistenza pubblica e privata di Za, della sua irrequietezza. Pensa sia in parte anche frutto della sua cultura, delle sfumature sottili che riuscite a vedere nell’umanità intesa come specie? Qui in Italia poco si è compreso e ancora oggi non si comprendono a fondo il valore umano di Zavattini, le sue battaglie per la Pace, la rivoluzione di immagini e parole nel cinema, nella letteratura, per un sapere di tutti e non di pochi.
Sono pienamente d’accordo che l’interrogativo «Che cosa è la vita?» in Parliamo tanto di me è legato alla particolarità di alcuni momenti della sua vita: per la morte di suo padre e forse anche per l’attesa del figlio. Nel comprendere le opere zavattiniane, sicuramente la mia cultura mi ha aiutata. Secondo me, ogni cultura ha un approccio diverso. Come allude l’iniziale storietta del capitolo III, ognuno potrà arrivare al punto un giorno, ma i percorsi saranno diversi.
Quali difficoltà ha incontrato nel lavoro di traduzione del linguaggio zavattiniano in una lingua tanto lontana da noi?
Non era facile tradurre Zavattini in giapponese dal momento che le sue parole sono concise ma dense di connotazione. Credo che nel tradurre la letteratura sia importante cogliere l’essenza e mantenerla anche in una lingua tradotta. Nel caso delle opere zavattiniane, avverto la forte potenza delle immagini (sin dalle prime righe di Parliamo tanto di me, le sue parole sono altamente cinematografiche). Ho cercato quindi di immaginare fino ai dettagli frase per frase e restituire il tutto in giapponese.
Che cosa ama, apprezza di più in Zavattini? Lo sta ancora studiando, leggendo? Tradurrà qualche altro libro, in futuro?
Ammiro Zavattini per la sua etica e la sua coerenza. Come notato da alcuni critici, Zavattini è poliedrico ma la sua essenza è sempre una sola. Immagino che sia stata una persona estremamente responsabile nei confronti della società, dell’arte e dell’umanità. Ho finora tradotto in giapponese anche una parte di Io sono il diavolo e spero di poter tradurre l’intero libro. In più, spero anche di tradurre le sue critiche cinematografiche. Difatti, per approfondire la poetica zavattiniana, sono arrivata a studiare anche il cinema italiano e ora lo insegno presso un’università giapponese. Il cinema viene spesso visto come un semplice mezzo di intrattenimento, ma è soprattutto un mezzo cruciale per imparare e capire come vedere il mondo. Può insegnarci la vita. Vorrei contribuire a divulgare tale idea essenziale del cinema che ho imparato da Zavattini.
E come pensa che questo libro sarà accolto in Giappone? Creerà dibattito? Pensa che il libro potrà trovare estimatori a distanza di tanto tempo dall’epoca in cui fu scritto, e in una temperie culturale oggi tanto mutata, sia in Occidente che in Oriente?
Spero di cuore che venga ben accolto. È diverso dagli altri “romanzi” e ci saranno anche le critiche e le difficoltà di comprensione dovute alla distanza del tempo e del luogo dalla pubblicazione. Ma proprio per questa distanza, alcuni coglieranno l’umanità universale descritta in questa opera. Credo che sia un destino che questo progetto di traduzione sia andato in porto in questo momento storico. Ora non mi resta che sperare che l’opera incontri più lettori possibili nel Paese del Sol Levante.
In copertina: Cesare Zavattini fotografato da Paolo Monti negli anni Cinquanta