L’editoria poetica è crudele e imprendibile. I piccoli editori facilmente non riescono a tenere in catalogo tutti i titoli ed è difficoltoso spesso trovarli in libreria; ma anche la grande editoria, pur con la forza della distribuzione, stampa libri che a volte, tempo due o tre anni, risultano introvabili.
È un problema che ha a che fare per alcuni autori con la vanità, per altri con la permanenza. Per Gabriele questo tema era legato alla possibilità stessa della memoria umana, di una trasmissione, prima ancora che libraria, per così dire etica. Ne parlavamo spessissimo, si facevano ipotesi su questo e quell’altro editore per proporre i nostri libri – perché entrambi siamo sempre stati grafomani, felicemente ossessivi, l’idea se arriva va seguita fino in fondo (è la grazia sovraesposta della lingua, dunque della poesia, il che vuol dire la stessa cosa – il corpo della poesia è la lingua). Aggiungo solo che Gabriele nutriva un amore sincero per l’editoria piccola, indipendente, ma non era assente in lui la sana ambizione di chi riconosce a se stesso, pure pallidamente rispetto alla forza con la quale in lui l’hanno riconosciuto gli altri, un talento e una vocazione. Gabriele Galloni è la sua poesia mentre scrive, ed è semplicemente (straordinariamente) Gabriele quando lavora. Di che lavoro si tratta? Qual è il mestiere del poeta? Stare allerta, essere pronto ad accogliere la poesia quando arriva, assecondarla come un ospite a sorpresa che, accomodandosi sul divano della tua casa, ne prenda quasi la forma mentre gliela imprime, perché la parola “ospite” ha questa meravigliosa virtù d’indicare insieme chi apre la porta e chi la varca. Questa mi sembra un’immagine esatta per indicare il rapporto tra Gabriele poeta e la sua poesia.
Esce ora per le edizioni Crocetti un volume dal titolo Sulla riva dei corpi e delle anime (con introduzione di Alessandro Moscé) che comprende quasi l’intero della produzione in versi di Gabriele Galloni, escluso l’ultimo libro postumo Bestiario dei giorni di festa (Ensemble, 2020) e le prose poetiche di Sonno giapponese (Italic, 2019). Un discorso a parte sarà fatto, io spero, in futuro per le poesie di Corpo di mamma, un piccolo canzoniere scabroso e sublime pubblicato dall’autore romano con l’eteronimo di Olimpia Buonpastore (il precedente è illustre: già Beppe Salvia editò per i Quaderni di Prato Pagano a metà anni Ottanta il volumetto Estate, con l’eteronimo di Elisa Sansovino).
Accolgo e festeggio la pubblicazione di questo nuovo libro di Gabriele come una restituzione e un debito per ora saldato, convinto che Gabriele si sarebbe sbracciato in libreria davanti alla pila color crema del suo libro, probabilmente esultando in maniera incontenibile, a voce troppo alta per non creare in me un piccolo imbarazzo – del quale progetto di disfarmi presto –, magari dicendo qualcosa come «Hai visto? Ci siamo riusciti». Plurale, come sempre in lui la poesia. Plurale come ogni festa che si rispetti, con molti invitati e tanti ospiti e anche qualche imbucato. La giovinezza di Gabriele è stata una lunga interminabile festa in riva al mare, coi suoi silenzi e le sue speranze, gli amori e i dolori, le soddisfazioni e la fame inappagabile di conoscenza (bancarelle, dischi, libri all’usato, mercatini, angoli sconosciuti ai più di una città, Roma, che si è stesa ai suoi piedi schiudendogli segreti dolcissimi nella luce dorata dei tramonti). Una giovinezza mitica, come le giovinezze di tutti.
Rileggo le sue poesie nella progressione cronologica che offre il libro e mi sorprendo nel trovare semplicemente un poeta. Né un santo, né un volto da cristallizzare nel tempo buono per chi, leggendolo una volta, provasse la tentazione di fermarlo per sempre in una manciata di espressioni o formule. Un poeta vero insomma. Un poeta capace con la stessa istintività conquistata di giocare con registri e metri:
Abbassa un’ultima
volta le reni. “Guido, non
t’avrei detto vergine.”
oppure:
L’angelo è pazzo.
L’angelo ci tocca.
L’angelo vuole;
l’angelo non dice.
Sul sofà newyorchese una Beatrice
velata.
L’angelo ci viene in bocca.
ma anche l’umanità nuda e commovente:
Dei nostri giorni calcolammo il peso,
la grazia successiva ed eventuale.
o ancora:
Non sai più dire quando torneremo.
Noi siamo adesso le ultime creature,
siamo cresciuti – e in fondo è stata breve
questa vacanza al di là della terra.
Tra i libri di Gabriele non esiste gerarchia. Intendo dire che fin dall’esordio con Slittamenti ci troviamo di fronte a una voce che ha elaborato il suo apprendistato in anni incredibilmente acerbi (la prima raccolta prefata dal poeta Antonio Veneziani esce ad appena ventun anni), ma enormemente fruttuosi. Come per un albero incantato, nato dalla terra magica di un bosco affatturato, dai cui rami pendono insieme mele, arance, limoni, fichi, susine e qualsivoglia delizia dal succo dolcissimo – «L’assenza del mago / non annulla il sortilegio», leggo Dickinson e penso a Gabriele –, molti e diversi sono gli esiti della sua poesia anche all’interno dello stesso testo. Il capovolgimento dell’ironia nella severità del dettato, lo specchiamento della tragedia nella commedia della vita, scene quotidiane e miniature dall’altro mondo (c’è una febbrile e lucidissima invenzione che lavora in Gabriele Galloni e dalla quale scaturisce la scelta anche obbligata di licenziare libri a nucleo unico: gli Slittamenti del soggetto che si attesta e si riconosce per la prima volta, con voce tremante e tesa, come poeta nel mondo; la cartografia del mondo-di-là di In che luce cadranno; la fragile provvisoria permanenza su questa terra di Creatura breve, e le maschere a nostra disposizione per darci coraggio; la giovinezza-per-sempre nelle case al mare de L’estate del mondo, il novissimo Bestiario dei giorni di festa), e poi la riflessione esistenziale e il gusto dell’epigramma quasi dissacrante costituiscono il doppio itinerario della sua scrittura. E l’occhio del poeta dov’è? Non ubiquo al di qua e al di là del mare, ma nelle acque a bagnarsi le caviglie, a camminare in eterno, per risvegliarsi in ogni possibile domani nel suo elemento (il mare, nella psicoanalisi junghiana, coincide con la madre – la “poesia-madre” – e l’inconscio).
Si farebbe un torto alla sua memoria nell’elargire giudizi apodittici e definitivi sulla sua natura di poeta. Non è vero che Gabriele era un poeta già maturo, come non si può esserlo a venticinque anni, e via così a ritroso (spesso poi, in Italia, dire di un autore che è maturo equivale a dire che è oramai inoffensivo, e invece leggere Sulla riva dei corpi e delle anime offende e cura, difende e assedia). La sua mano sulla pagina è passionale e appassionante, stupefatta e stupefacente, persino incredula (è sempre il poeta il più sorpreso dopo aver scritto una poesia), ed era / è una mano onesta e salda verso i propri lettori proprio perché si concede la possibilità del mutamento, della caduta, e a tratti dell’altezza inarrivabile. Non era un poeta già maturo, non era un enfant prodige (non credo nei prodigi, ma nello studio costante; non credo nella genialità, ma nell’intelligenza) e non era nemmeno un modello – spetta ai modelli un destino sciagurato: l’immobilismo mentre si viene contemplati, e solo da una prospettiva alla volta. Era semplicemente (è quanto ho da dirvi in totale trasparenza e commossa ammirazione) il migliore poeta della mia generazione, e al momento, tra noi che ci leggiamo o fingiamo di leggerci e ci affanniamo ad assicurarci un articolo o un invito a un festival o uno spazio nell’antologia più discussa del mese, resta insuperato. Chi non se ne accorge, o non lo ammette, dice il falso. Essergli stato, essergli amico è il privilegio più grande, di quei doni immeritati che vanno accolti, senza conta dei meriti. Per grazia e fortuna. Ora sostituite “essergli amico” con “essere un suo lettore” e ancora una volta tutto si tiene.
Immagine di copertina: Gabriele Galloni, (c) Dino Ignani