Seni e uova di Mieko Kawakami, uscito da poco in Italia per e/o, ha inondato il panorama giapponese come l’onda colossale ma delicata di Hokusai. L’ha accompagnata nel suo viaggio di caso letterario un blurb di Murakami Haruki, che si proclama piacevolmente scioccato dall’esperienza di lettura. È la storia di tre donne: non “tre donne” alla Altman (film meraviglioso!), così simbiotiche e permeabili da mischiare le identità come colori su una tela. Piuttosto tre donne parallele, assorte ognuna nella sua lotta personale con il corpo.
Il Giappone è un paese culturalmente ed emotivamente complesso. La vita ordinaria scorre secondo due assi parallele: una virtualità sempre più pervasiva (certi templi hanno dei monaci robot, cosa unanimemente considerata dai pellegrini “ospitalità”) e una corporeità ancora imbrigliata in rituali atavici, che regolano la fisicità secondo antichi dualismi puro/impuro. È il paese dei bonsai: un prodotto naturale che sviluppa se stesso secondo una stortura esclusivamente umana.
Seni e uova nasce in questo meraviglioso ingorgo di pudori e astrazioni e racconta, a volte coscientemente e altre suo malgrado, le pieghe sinistre di questi contrasti, seguendo il risveglio di tre donne che inaugurano uno sguardo “proprio” sui loro corpi, uno sguardo che si rifiuta di essere uno sguardo derivato, un sottoprodotto dell’osservazione rapace e normativa di un maschio.
La protagonista si chiama Natsuko, cioè verosimilmente “bambina dell’estate”, e come una bambina osserva la vita degli altri dal basso, non giudicando ma affaticandosi a trovare lumi per comprendere la sua esistenza perennemente agli albori. La sorella di Natsuko, Makiko, vuole rifarsi il seno. La figlia di Makiko, Midoriko, detesta la madre per questo suo desiderio di migliorarsi fisicamente e trasale all’idea di quando comincerà a sanguinare – di fatto è proprio il sangue, ovvero quello che per il sentire shintoista è la somma impurità, a sancire il passaggio all’età adulta con la sua ridondante necessità di essere se stessi. La madre di Natsuko e Makiko, coincidenza sinistra, è morta proprio di tumore al seno: sono infatti i corpi, non le identità, a sovrapporsi nel romanzo.
Tutto questo, nonostante il titolo fantasioso che suggerisce provocazioni letterarie o concettuali, è raccontato da Kawakami con la semplicità e il candore degli shōjo anime che guardavamo da bambini: ricordate Candy Candy? E la ragazzina di Un fiocco per sognare che, in possesso di un fiocco incantato, non poteva fare a meno di trasformare il suo corpo, compulsivamente, ma non lo faceva apposta, come fosse una metafora dei cambiamenti sinistri e improvvisi del corpo femminile in adolescenza?
Non esistono maschi, nel libro, se non come presenze fantasmatiche e strumentali, e questa idea vagamente politica è la più riuscita del romanzo: in Giappone non è possibile abortire senza il consenso del padre, e ancora oggi, percorrendo le strade delle grandi città (racconto per esperienza personale), accade spesso che una donna venga apostrofata da un ubriaco con queste parole: «Quanto costi, all’ora?».
L’unico uomo che produce un qualche effetto sui personaggi del libro è un ex compagno di classe che Natsuko incontra nella sauna: era una donna, ora è un uomo, e questo produce in Natsuko, inconsapevole (lei e l’autrice) che il genere sia una costruzione sociale, uno sconvolgimento che ha esorbitanti effetti allucinatori.
In questo periodo è uscito anche un libro dal titolo affine: Gusci di Livia Franchini (Mondadori). È una storia completamente diversa: quella di una trentenne fragile e introspettiva, Ruth, che emerge faticosamente da un lutto amoroso, ripercorrendo le «zone neutrali desensibilizzate» del rapporto e della casa, ridefinendosi attraverso una lista della spesa: una conta immaginaria di cibi da comprare, di parti di sè di cui ripristinare l’apporto nutritivo per la psiche.
Il rapporto con il cibo non è infatti solo una cornice esteriore, ma una specie di conto alla rovescia interiore, un esercizio di sottrazioni e riflessioni per liberarsi dell’affettività comune del rapporto e tornare all’osso di se stessi. Mentre Niel, l’ex, era un ragazzo che «eccelleva nell’essere normale», e lo faceva reclamando sempre più spazio nella relazione, Ruth si rimpiccioliva: ho ripensato al Museo delle relazioni spezzate, un’esibizione itinerante che ho visto a Londra anni fa. C’era la storia di una ragazza che nel museo aveva depositato una lente d’ingrandimento. «Me l’aveva regalata lui, prima di lasciarmi. Io sapevo che era perché io ero così piccola, nella nostra coppia».
È possibile collocare i due romanzi, così diversi, sulla stessa linea immaginaria: se le uova di Kawakami sono le unità minime della femminilità – mammelle da modificare o modificate nel ricordo, ovuli che cominciano appena a prodursi alle soglie con l’età adulta, parti di corpi non del tutto pensate, non abbastanza da divenire metafora – i gusci di Franchini sono i resti di un discorso amoroso già strutturato: un’intelligente riflessione su cosa resta delle nostre parole e dunque dei nostri corpi dopo la fine di un amore.