Nella casa dei tuoi sogni (Codice edizioni) è il piccolo miracolo che un passante – o forse san Luca, protettore dei libri – getta come obolo sul nostro cammino. Ci risolleviamo. Tutto qui – come nei veri gioielli postmoderni – diventa materia (o maceria) utile a creare una nuova fabulazione, nuova arte, nuova visione. La struttura è un enorme calderone che costituisce un immaginario multitopico. Ci si aggira tra un cumulo di macerie iconiche e semantiche del cinema, della televisione, di fatti di cronaca, di qualcosa che rimanda sempre a qualcos’altro, sulle quali si fonda non solo l’estetica ma l’esistenza stessa. Carmen Maria Machado, classe 1986, sta assisa su di noi mentre abiura qualsiasi pretesa di compiutezza formale, mentre va a caccia della se stessa del passato – colei che basta un nulla per risvegliare e con cui non è in buoni rapporti e che fatica a perdonare; tutto questo senza altra pretesa di virtù che non quella di testimoniare, di riunificarsi. Ha un’angoscia decifrabile solo per le persone sopravvissute a qualcosa di terribile o che lottano per la sopravvivenza – che «non sentono il dovere di doversi spiegare né tantomeno giustificare».
Gaslight, prima di essere un verbo, fu un sostantivo – lume a gas – e poi un film, in italiano Angoscia, del 1944 di George Cukor, con la grandissima interpretazione di Ingrid Bergman nei panni di una donna la cui salute mentale viene minata dal marito «che cambia posto agli oggetti nel tentativo di farla credere pazza per poterla ricoverare in manicomio». Nel film di Cukor l’uomo ha una ragione pratica per comportarsi così: vuole recuperare dei gioielli nascosti in soffitta all’insaputa di lei. La Bergman si trova «in una spirale terribile e ambivalente: più si convince di essere sbadata e fragile, poi folle, più l’instabilità aumenta. Tutto il suo essere è disfatto dalla violenza psicologica: è raggiante, poi isterica, poi sempre più ossessionata. Alla fine, è un guscio vuoto. Lui non la chiude a chiave in camera in casa. Non ce n’è bisogno. Trasforma la mente di lei in una prigione». Ma nella realtà la maggior parte delle persone non ha motivi concreti per perpetuare l’abuso domestico, nessun tesoro nascosto in soffitta: è la dolorosa gratuità dell’agire, oblatività negativa.
Nella casa dei tuoi sogni. E invece lei quella casa non l’ha sognata, e non può infatti dimenticarla. Altrimenti si troverebbe separata da una parte immensa della realtà il cui senso e importanza sono lungi dall’essere colti. Nei tempi antichi si sapeva incorporare alla realtà i sogni e le allucinazioni dei dementi; quanto a noi, andiamo verso l’amputazione della vera realtà relegandola al campo dell’illuminazione del sogno. Machado prende continuamente le distanze da se stessa, rivolgendosi a sé con un tu impersonale. È forse ancora incredula di ciò che ha vissuto. I sogni sono lungi dall’essere vani. E se fosse così, i diritti delle esperienze personali non saprebbero essere fissati secondo il grado della loro dimostrabilità. Per quanto strane e capricciose e arbitrarie siano le nostre esperienze personali, per quanto poco si accordino con le concezioni stabili della nostra vita interiore ed esteriore, avendo avuto luogo nell’anima di una persona esse guadagnano ipso facto il diritto legittimo di figurare allo stesso rango dei fatti più dimostrabili e più accessibili al controllo e alla verifica sperimentale. Serve la buona fede, e non la dimostrazione.
Seppur non sia un libro immobile, sconfinato, incomprensibile, inesplicabile, come un cielo altissimo, nero, incombente e deserto, e la malinconia che ti segue dovunque, Nella casa dei tuoi sogni aiuta a interrogarsi su di un tema che a favore delle lotte sociali, politiche, culturali ha perduto gran parte dello sguardo individuale, delle sottigliezze, delle sfumature e degli spazi nascosti nelle relazioni di abuso, spergiuro, abbandono, violenza. Primo fra tutti ci si domanda se possa esistere una violenza impersonale, scissa da contesti e relazioni, svuotata d’interpretazioni, delegittimata da ogni ragione – una violenza assoluta, sadica, lucida, bestiale, de-personalizzata.
Le domande che si pone Machado potrebbero essere così formulate: questo libro mi permette di fuggire? Cosa posso usare per fuggire, dopo tutto questo tempo? Sono ancora in tempo? Che significato posso attribuire al libro se il mio scopo è liberarmi di una convinzione o di un desiderio che rischiano di condizionarmi? Machado pragmatica che vuole scoprire cosa non vuole, dice al suo libro ‘Liberami’. Molto dipende dall’esigenza di costruire un’immagine di noi stessi sapendo ciò che non vogliamo, oppure sapendo ciò che vogliamo davvero. Da piccola Machado, dice in un’intervista, si lasciava ipnotizzare dalle letture di libri dell’orrore pur sapendo che non l’avrebbero fatta dormire e l’avrebbero terrorizzata. Tra il dolore e il nulla, sceglieva comunque il dolore. Questa è una scelta delicata e di cui ci si può facilmente pentire, ma Machado sembra persistere.
Quando Freud, nella Disposizione alla nevrosi ossessiva, notava che dovremmo «porre l’origine della moralità nel fatto che nell’ordine evolutivo l’odio è il precursore dell’amore» suggeriva che il desiderio di abbandonare qualcosa – come una relazione sbagliata – precede sempre il desiderio di lasciarsi coinvolgere. Nelle relazioni tossiche il desiderio di avere qualcosa supera la paura di non avere nulla. Il desiderio di mangiare la torta in schiavitù supera quello di mangiare il pane con dignità, come spiega la Arendt. Il precursore dell’amore è sapere ciò che non vogliamo, ciò da cui vogliamo fuggire. Machado tenta di scoprire cosa odia, e cerca degli indizi su come sfuggire. Facendoci riconoscere la nostra dipendenza verso gli altri, in questa visione, è nella nostra natura agire contro la nostra natura. Il bisogno degli altri è una forma di sconfitta o una capitolazione. La dipendenza viene vissuta come un debito, o un desiderio vissuto come un’irresistibile fascinazione. Come sarebbero le relazioni se pensassimo che nulla hanno a che fare con un debito o un obbligo? «Genio» disse Sartre, «è chi riesce a districarsi da situazioni impossibili». Purtroppo, sapere cosa non vogliamo non significa sapere cosa vogliamo davvero. In un semplice bilancio piacere-dolore, ci troviamo sospesi tra l’oggetto insoddisfacente di cui dobbiamo liberarci e l’oggetto o la realtà potenzialmente gratificante che desideriamo e ricerchiamo. Sapere cosa accadrà se non ce ne andassimo equivale, per quanto paradossale, a una conoscenza incompleta ma le vittime sentono spesso quel mondo come l’unico dei mondi possibili.
Non credo che la Machado voglia farsi giustizia. In certi casi è lecito supporre che sia particolarmente difficile esercitare la giustizia. Molti uomini non sono adatti alla bisogna, perché sono o troppo poveri o troppo disgraziati per poter essere giusti o per intendere per giustizia qualcosa di diverso da un aiuto per loro stessi. La Machado, attraverso la sua personale storia d’amore lesbico, tratta tutte le sfumature e non si nasconde: vuole inserire nell’archivio il fatto che l’abuso domestico tra persone dello stesso sesso esiste e non è insolito. Getta la pietra della storia dentro un immenso crepaccio «e il rumore esiguo che rimanda dà la misura del vuoto». Racconta le diverse fasi dell’incontro con la sua compagna, e del crescendo e susseguirsi di abusi che ha dovuto subire. Perché? Per molte ragioni.
Perché qualcosa di fondamentale era schermato, palesato in piccole esplosioni finché è diventata un’alluvione. Perché sarebbe potuta scappare: la porta era aperta «ma era come se neanche sapesse cosa stava guardando». Perché non voleva che la sua compagna fosse una malata di mente, una persona disturbata e incapace di controllare la rabbia: non voleva quella «cattiva pubblicità» per i queer. Perché le persone queer hanno più da dimostrare alle altre persone. Devono dimostrare non solo di essere uguali, ma addirittura di essere migliori – hanno il doppio da dimostrare: «quando cerchi di far vedere alla gente la tua umanità, riveli proprio questo: la tua umanità. La tua natura fondamentalmente problematica. I tanti modi originali e orrendi che ha la gente di poter sbagliare, e la gente sbaglia».
Perché «non è un’impresa facile mettere in linguaggio una cosa per cui non esiste un linguaggio». Perché «la sindrome della donna maltrattata come giustificazione era nuova di zecca e sia abuso che abusata significavano solamente una cosa: violenza fisica a una donna bianca ed eterosessuale». Perché forse ci si affida all’amore delle donne nella speranza di essere protette e accudite e al riparo dalla violenza, e imparare cosa significa avere paura di un’altra donna è un processo lento e vergognoso – anche se dalla vergogna non si impara mai alcunché, non è utile, e non è comprensibile perché della vergogna dell’abusato l’unico lavacro sia la punizione del colpevole. Perché non era solo arrabbiata e non aveva solo il cuore spezzato: ma soffriva per il tradimento. Soffriva perché la compagna le rendeva impossibile amarla, perché doveva «rinunciare a quella sensazione unica di quando qualcuno ti ama e ti senti completa, e adorava sentirsi desiderata e desiderare qualcuno in continuazione». Piangeva quindi la perdita di qualcuno che avevano costruito assieme. E ancora altre ragioni. Perché «tutti possono perdersi». Perché «non c’è un posto migliore in cui vivere che all’ombra di una bella montagna furiosa». Perché la amava. Perché era nella casa dei suoi sogni e perché è difficile percepire il momento in cui le cose diventano intollerabili.
Ci si rende conto che, scavando in profondità, non esiste essere umano o condizione umana che non abbia patito ingiustizie e non meriti comprensione e con una simile comprensione universale nessun essere può essere giudicato né condannato. Là dove ci muovevamo al sicuro nel nostro sdegno e nell’assentimento si è inserito il pensiero che l’idea di innocenza e colpa sono talmente mescolate che l’uomo, con i suoi metri inadeguati, i suoi limiti non è in grado di districarle. E questa impossibilità di tutti noi di penetrare a fondo e perseguire il vero attraverso le mille implicazioni è e sarà sempre fonte di una profonda infelicità. Tuttavia, è essenziale farlo, continuare a farlo, studiare quei singoli casi in cui ci pare di scorgere un colpevole in una persona precisa e su cui potremmo riversare il nostro giusto odio, perché la soluzione ci pare l’unica salvezza. I nostri umili e rozzi strumenti sono i soli strumenti che abbiamo. Credere in una cosa – anche in una cosa sbagliata, ma credere – perché il mondo senza la verità ci sembra atroce. Vogliamo sempre sapere chi amare e chi odiare, in ogni momento. Ma l’odio del debole è veramente più accettabile dell’odio del forte? Sebbene sia utile, conveniente trattare le questioni di violenza di genere con un manicheismo cui la necessità stessa si rende latrice, serve solamente a incentivare sistemi ostracisti per ogni donna.
Machado a un certo punto ha deciso – o forse più onestamente l’ha sempre saputo, perché gli scrittori vivono gran parte della loro vita come personaggi del loro dramma, e scrivono le scene mentre accadono loro, perpetuamente scissi – di scriverne, perché «se chiudi il tuo dolore nel silenzio, ti uccideranno e diranno che ti è piaciuto». La riprova dell’abuso è il racconto dell’abuso. Non ci dice da dove veniva lei, da dove veniva la compagna. Non abbiamo tantissime informazioni per capirle, per capire perché entrambe si incastrano in una relazione tossica – che finirà senza climax, con l’abbandono di Carmen da parte della compagna. Eppure, capiamo ogni cosa. È un’opera delicata: l’estetizzazione del dolore non c’è, non c’è autocompiacimento, c’è invece profonda comprensione per chi non riesce ad andarsene. Credo che Machado non consideri il suo sguardo abbastanza puro da essere considerato vero aiuto. Credo si chieda che senso abbia avuto il suo amore se non poteva curarla, e quale senso, se non poteva ucciderla. Si era avvilita a tal punto da cessare di desiderare la liberazione. Gli altri avranno l’impressione ch’ella fosse soddisfatta delle sue sventure, ma lei era costretta da se stessa a ripiombarvi. Decide così di esplorare il problema anziché risolverlo, tollerare una perdita di sé e sostenerla. Una sorta di abbandono consapevole alla mutevolezza dell’essere: non ci si deve poi riparare dai mali del mondo, bensì rendersi conto di ogni cosa. Nulla è troppo atroce da non essere vissuto. Machado si trova così nello specchio narrativo di una società ormai laicizzata. Dove l’afflato trasfigurante e romantico viene derubricato nel suo spirito volgarmente calcolatore. Il ‘grande amore’, che per definizione ‘non si trova’, che diventa malato, che ci tormenta. Così il misterico ‘né con te né senza di te’, diventa un leitmotiv ipnotico da eterni adolescenti, una fuga dall’amore reale e dozzinale, un inseguimento della propria ombra e dei propri sogni; il motto oraziano ci dice che l’odio lega e l’amore separa. Sicuramente l’abusato ha molta più dignità dell’abusante. L’abusante è preda di urli, strepitii, l’odio toglie la dignità, la sopraffazione è ridicola, rumorosa, le manipolazioni goffe, i piaceri poveri. Per l’abusante occorre affrancare la vittima dai fantasmi interiorizzati che lo tengono in pugno, deve diventare lui il suo fantasma, il suo mostro. Come? Creando nel suo intimo dipendenza. Sottraendogli la sua proprietà, alienandolo. Prima di essere politica, la rivolta è esistenziale. E questo dice anche Severino, che l’amore è volere che l’altro diventi altro da sé: l’estrema violenza, rendere qualcuno diverso.
Dice Sartre che nessuno ha il potere né il privilegio di dar niente a nessuno. Ognuno ha tutti i diritti. Su tutti. E la nostra specie, quando un giorno si sarà fatta, si definirà come l’unità infinita delle reciprocità degli abitanti del globo. E ci dice anche che «le nostre vittime ci conoscono dalle loro ferite e dai loro ferri: questa rende la loro testimonianza irrefutabile. Basta che ci mostrino quel che abbiamo fatto di loro perché conosciamo quel che abbiamo fatto di noi». Forse Machado cerca ancora, dopo tanto tempo, di fare solamente questo: dire a quella donna ‘guarda cosa hai fatto di me e renditi conto di chi sei’.
Immagine di copertina: illustrazione di Davide Bonazzi, nel corpo del testo dipinti di Edward Hopper, Paul Delvaux, Vilhelm Hammershøi