Pare che Roland Barthes, vedendo una fotografia ottocentesca che ritraeva l’ultimo fratello rimasto in vita di Napoleone, si sia detto «sto vedendo gli occhi che hanno visto l’Imperatore». Ripensando alle mie lunghe chiacchierate con Mario Masini anche a mesi di distanza, mi veniva spontaneo pensare: «quelli erano gli occhi che hanno visto la vista». O che «hanno visto la vista vedere la vista» come se questo gioco di specchi potesse durare in eterno. Fatalità della pupilla, sua – permanenza.
Santa Cesarea Terme, 1968. Ancora non lo sa, ma il cinema sta subendo uno dei suoi più vistosi attentati. È in piena penisola salentina che Carmelo Bene, Lydia Mancinelli e Mario Masini, con una troupe che praticamente iniziava e finiva con loro, girano Nostra Signora dei Turchi. Anti-film, contro ogni ‘maggio italo-gallico’. Iscritto quasi per sberleffo all’edizione della Mostra del Cinema di Venezia più contestataria della storia della kermesse – quella in cui Pasolini avrebbe voluto non fosse proiettato Teorema, e da cui C.B. sarebbe tornato vincitore di un Leone d’Argento.
Ma cos’è Nostra Signora dei Turchi? Lasciamo che sia Carmelo Bene a dircelo. «Nostra Signora dei Turchi è un melodramma, ma non per la melodia che arriva alle orecchie, per la melodia che arriva agli occhi» – e questo è un bene. Infatti, «la musica ci libera dalle idee, da ogni cosa. Non credo che alla musica e, grazie a Dio, non ho mai imparato a scriverla o a leggerla» sentenziava, risolutamente, in un’intervista con Noël Simsolo. Melodia delle immagini, parodia della vita interiore, Nostra Signora dei Turchi è tra le più grandiose trasposizioni filmiche della tecnica letteraria del flusso di coscienza. Convergenza tra letteratura e teatro del tutto ignara di ogni tradizione e di ogni sintassi filmica, Nostra Signora dei Turchi proprio perché già passata per la prova della carta e del palcoscenico – C.B. aveva pubblicato un romanzo con questo titolo nel 1966, per poi approntarne, nello stesso anno, una prima versione teatrale – rappresenta paradossalmente anche una delle più lucide riflessioni sul mezzo filmico, sullo specifico filmico in particolare. Ma proprio perché tanto attento allo specifico del cinema, e al dialogo tra i linguaggi, C.B. si prendeva il gusto irridente di negare tutto il cinema prima e accanto al suo – tra le poche e occasionali eccezioni, Antonioni, Buster Keaton e Godard.
«A chi piace Don Giovanni non può piacere né Hitchcock, né Renoir, né Bertolucci, né Fellini, né eccetera» C.B. impose ad Adriano Aprà di trascrivere in una loro intervista dei primi anni Settanta, per poi aggiungere: «lo ripeto: bisogna rifiutarsi di essere contemporanei». La biografia di Masini dopo l’incontro con Carmelo Bene sembra mettere in pratica questa provocazione – più nel rifiuto del cinema che della contemporaneità. Poco importa se, per alcuni anni, Masini continuò a fare il direttore della fotografia, mentre si riduceva la distanza tra quel filone indipendente-underground in cui si era fatto conoscere negli ultimi sessanta, e le forme canoniche del cinema ‘ufficiale’, industriale, magari co-finanziato dalla televisione pubblica. Scorrendo la filmografia di Mario dopo l’addio al cinema dato da Bene con Un Amleto di meno, non si trova nulla che potesse far presagire il suo imminente ritiro. Con i fratelli Taviani Masini gira due film, sintomo stesso di questo cambiamento in atto: San Michele aveva un gallo del 1972, e Padre Padrone del 1977, vincitore inaspettato della Palma d’Oro al Festival di Cannes grazie all’endorsement radicale di Roberto Rossellini. Lavora anche con Giuseppe Ferrara, Luigi Di Gianni, Arrigo Montanari, Vittorio De Sisti, registi adesso meno ricordati, ma con una loro grandeur nel cinema italiano ancora in fermento degli anni settanta.
Eppure, a poco a poco, al pari di C.B. anche Masini abbandona il cinema, e subito dopo che un film da lui fotografato aveva vinto il massimo premio tra i festival europei – quasi una dimostrazione di quella convinzione beniana che non si poteva amare l’‘altro’ cinema dopo aver attraversato i film e i set di Carmelo Bene. C.B. stesso rilevò con piacere questo addio alle scene nella sua ‘autobiografia impossibile’ Sono apparso alla Madonna: «assecondato da un genio della macchina da presa, Mario Masini che, dopo aver lasciato la vita nei miei film, ha pensato bene di cambiare mestiere. Si trasferì in Germania, insegnante di bambini handicappati». Ci permettiamo di notare, en passant, che, tra tanti rifiuti e tanti ‘cani’ mandati a dire senza mezzi termini a (non)-colleghi attori, Masini è uno dei pochissimi per cui Carmelo scomoda il termine genio, seppur relegato alla tecnica.
Eppure, a smentire ancora una volta e Bene e se stesso, con gli anni Novanta Masini ritorna al cinema. Lo fa attraversando un set che rappresenta il cinema industriale e paggesco nella forma per lui forse più deteriore, Piccolo Buddha, la nuova avventura orientale del duo Bernardo Bertolucci/Vittorio Storaro dopo il successo dell’Ultimo imperatore. Riportato al cinema dal suo amico Paolo Brunatto, al quale doveva, del resto, anche la conoscenza di Bene, Masini ci resta. Senza mai abbandonare del tutto il suo legame con la scuola steineriana, Masini collabora soprattutto con registi portoghesi e africani, con qualche raro approdo anche nel cinema italiano.
Masini è un uomo irripetibile, irreplicabile – un testimone inaspettato e a tratti inconsapevole di certo Novecento. Dal primo all’ultimo dei suoi ‘grandi incontri’, passiamo da David Maria Turoldo, tra i più illuminati sacerdoti del Novecento italiano, a Haile Gerima, caposcuola del cinema terzomondista. Nel mezzo, C.B., i Taviani, Ferreri, Di Gianni, anche Sylvano Bussotti e un giovanissimo Agosti. E quindi, e anche: Lydia Mancinelli, Veruschka, Giulio Brogi, Omero Antonutti, Lisa Gastoni, Leopoldo Trieste, Carroll Baker, la Melato. A testimonianza dell’innumerevole quantità di personaggi indelebili del secolo scorso che hanno affollato lo sguardo di Masini, quando mi raccontò dell’intervista a un «attore inglese che in quei giorni stava lavorando con De Sica» girata da ragazzo appena uscito dal Centro Sperimentale, non riusciva proprio a ricordarsi il nome della star capricciosa. Conoscendo la sua ottima memoria, pensai istintivamente a qualche nome minore, a una meteora del cinema britannico al suo primo e ultimo film italiano. Era Peter Sellers, alle prese con Caccia alla volpe.
Libri-intervista ne ho fatti diversi, tutti con la casa editrice Artdigiland di Silvia Tarquini. Interviste, a decine, se non a centinaia. I libri sono tutti commissioni che ho accolto a braccia aperte, accettando progetti che a volte hanno richiesto anni. È sempre interessante, e non di rado divertente, farsi raccontare la vita da set e alcune astuzie tecniche ma, non essendo né volendo diventare un direttore della fotografia, i momenti che davvero mi avvincono sono quelli in cui sento, nelle parole del mio interlocutore, che la tecnica si sta facendo semiotica – e produzione di senso oltre che sua teoria. È una sensazione provata quando le parole di Vladan Radovic lasciavano emergere uno specifico digitale a proposito della post-produzione e delle ‘LUT’, o ascoltando Joërg Widmer parlare della sua collaborazione con Terrence Malick, e Fabrice Aragno del suo confronto con Jean-Luc Godard.
Ascoltando Masini, questa sensazione della tecnica-che-diventa-semiotica era costante. Non tanto perché le sue parole mettevano in chiaro i principi teorici e artistici alla base della fulminea esperienza cinematografica di C.B.: per quello serve un Deleuze o un Manganaro, oppure scegliere la via breve e ascoltare la voce di Bene, come la si ritrova magari ne L’orecchio mancante, con la sua ‘Cinicittà’.
Masini porta il discorso in altre direzioni. Meno teoriche, più pratiche, ma non necessariamente tecniche. Mario, nelle pagine che abbiamo raccolto, parla di un Carmelo Bene frequentato quotidianamente in quell’ambiente che un quotidiano non lo permette mai – nell’ambiente di un set, di quattro set – e che set. Nostra Signora dei Turchi fu irreplicabile quanto a forza dirompente e confutatrice, ma come non parlare anche della fotografia di Don Giovanni? «Il vento del cinema in una stanza» intitolò Fulvio Baglivi il booklet da lui curato per RaroVideo. E della Salomè, con Bene che aveva promesso ai critici francesi di essere intenzionato a girare «il primo, vero film a colori?» Film che Masini in un primo tempo si rifiutò di fotografare, paradossalmente. Temendo lo stress fisico di dover lavorare di nuovo con Bene, provò ad accampare scuse di salute. Bene in un primo tempo finse di cascarci – e chiamò come direttore della fotografia un non meglio specificato ‘francese’. Ma quando questo chef-opérateur si rivelò incapace di utilizzare lo Scotchlite, quella particolare pellicola aderente che per C.B. era imprescindibile nella sua visione artistica del film, Masini fu chiamato d’urgenza a ‘Cinicittà’ per ‘risolvere’ una scena. Finì che Masini ultimò la Salomè, e fotografò Un Amleto di meno, il film che poi rimase il commiato di Bene al cinema (im)propriamente detto. Una sesta opera, A Boccaperta, la biografia di San Giovanni da Copertino, non venne realizzata perché Bene voleva per forza concepirla su due livelli, un ‘sopra’ e un ‘sotto’, per rappresentare al meglio le estasi e i voli mistici del santo. Masini fu tra coloro che trovarono il non scontato coraggio di far notare a Bene che nessun cinema avrebbe accettato di attrezzare una sala con due schermi solo per proiettare un suo film. Questi, e numerosi altri racconti, sono quelli che Masini ha consegnato al nostro libro.
La tecnica che diventa semiotica: (meta-)riflessione sul linguaggio, ed essa stessa produttrice di senso – mi sembra questo il significato più profondo della collaborazione tra Carmelo Bene e Mario Masini, dello stesso (anti-)cinema di C.B. se vogliamo. Ma non sottovalutiamo nemmeno il dato umano alla base del duo: quel letterale e commosso «eppure mi voleva bene, Carmelo Bene» pronunciato da Mario, su cui si chiuse il nostro dialogo a distanza, è un momento che, al di là della sorridente cacofonia, non scorderò facilmente di questo lavoro editoriale. Allargando un po’ lo sguardo, affiancando a C.B. tutti gli altri straordinari personaggi con cui Mario ha intrecciato più o meno a lungo il suo cammino, potrei forse anche aggiungere che Masini mi ha insegnato come reggere alla prova della Storia, allo sfilare, davanti ai suoi occhi, di quanto di meglio abbiano partorito una nazione e un secolo. Quest’insegnamento purtroppo la carta lo sa esprimere solo entro una certa soglia: stava nella sua risata calda e gioviale, stava in quel chiasmo di distacco e ammirazione di cui ha sempre dato prova. E in questo corpo a corpo con il cinema durato una vita intera, in questa polarità di passione e abbandoni, c’è tutta la poesia di un’esistenza passata ad osservare – attraverso l’obiettivo, le estasi altrui.