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Gira lo schwa: la galassia intersezionale di un fonema. Intervista a Vera Gheno



«Ci sono poche persone che non hanno mai pensato a che cosa sia il linguaggio.»1 Raccapezzarsi tra i meccanismi della lingua non è (solo) un gioco formale, riguarda il modo con cui decodifichiamo ciò che percepiamo, ciò che determina previsioni apparentemente banali: nella frase «Leonardo ama Giulia», siamo certi che sia Leonardo ad amare Giulia, ma non lo siamo del contrario, eppure la frase è linearmente speculare; la ragione della nostra interpretazione (corretta), non è determinata dall’ordine delle parole, ma dal fatto che nella struttura gerarchica della frase «Giulia» ha una relazione “più stretta” con il verbo, mentre «Leonardo» è più lontano.2 Un esempio, forse controintuitivo, di come il linguaggio sia un’abilità cognitiva (e computativa) sorprendente, tanto intuitiva quanto radicata, oscura, che descrive e forse, in parte, costruisce la realtà. Una sorta di termometro, che dà anche conto dei mutamenti sociali, culturali. L’idea di (ri)mettere al centro la linguistica per analizzare la proposta dello schwa nasce da ciò. Se la prima intervista ha avuto come protagonista il linguista Andrea De Benedetti, in questa seconda ho chiacchierato con Vera Gheno – saggista, attivista, per oltre vent’anni collaboratrice dell’Accademia della Crusca, e di recente in libreria con Chiamami così. Normalità, diversità e tutte le parole nel mezzo (Il Margine, 2022) – della sua posizione sullo schwa, e, più in generale, di un’interpretazione del fenomeno a trazione sociolinguistica, che guardi al significante anzitutto come veicolo di un significato sociopolitico, che ne riconsideri anche la capacità di “fabbricare” il mondo da una prospettiva relativista e tenga le fila del lungo dibattito tra lingua e genere degli ultimi anni.

Intervista Vera Gheno

Parto da un fatto di cronaca, la scelta di Giorgia Meloni di farsi chiamare il Presidente del Consiglio. Anche fosse un errore, sono quisquiglie come mi disse mia madre nel 2021 (salvo poi cambiare idea)?
Sua madre era (ed è) di sicuro in buona compagnia. Sembrerebbe un fatto generazionale che molte donne, soprattutto over trenta, quaranta resistano all’utilizzo della declinazione al femminile dei nomi di professione (e non solo), ma non mi focalizzerei sulla questione anagrafica. La società patriarcale era opprimente allora e lo è anche oggi; si è evoluta, ha implementato nuovi strumenti, ma i meccanismi sono gli stessi, e molte donne vi si trovano a proprio agio. Il dato biologico, cioè l’essere nata di sesso femminile, come nel caso di Meloni, non basta per essere femminista e di conseguenza comprendere l’importanza dell’autorappresentazione linguistica, del fatto che se mi faccio chiamare “direttrice”, “ingegnera”, “avvocata” non sto operando solo una scelta personale, ma faccio al contempo del micro-influencing. Il suggerimento di Claudio Marazzini è opportuno, non si tratta di un errore, ma di una scelta marcata rispetto a ciò che prevede l’uso della grammatica italiana; il punto, però, è chiedersi quanto il linguaggio che usiamo plasmi la visione che abbiamo della società. Cioè, seppure in forma annacquata, l’idea alla base della teoria della relatività linguistica Sapir-Whorf,3 che, come ho ribadito altrove, non è da considerarsi superata per me.4

In Chiamani così scrive «chi non viene nominato in una società basata sul linguaggio, non esiste».5 Andrea De Benedetti le obietterebbe che se ci trovassimo su un aereo, e in una situazione di emergenza l’hostess chiedesse se c’è un medico, all’appello risponderebbe anche una medica, a dimostrazione che il maschile sovraesteso è solo un meccanismo di semplificazione linguistica.6
Questo esempio, al massimo, segnala quanto l’abitudine a una società patriarcale sia dura a morire. È evidente che il claim «se non sei nominato non esisti» rappresenti l’estremizzazione del concetto che chi non viene nominato si vede meno. Nella situazione dell’esempio, è ovvio che, a meno che la mia mente non sia del tutto letterale, interpreterò medico come maschile sovraesteso. Ma ci sono molti altri contesti in cui, invece, l’uso del maschile “invisibilizza” una parte della società; ancora in molte professioni le donne non sono credibili, all’altezza. In più, a oggi, esistono finanche studi empirici che dimostrano il concreto peso socio-cognitivo del maschile sovraesteso, come quelli dello psicolinguista Pascal Gygax

De Benedetti si chiede: se è la lingua a influenzare la società, perché in paesi in cui sono parlate lingue senza codifica del genere grammaticale (in Turchia, in Iran ecc), le condizioni, per esempio, delle donne non sono migliori?7 Insomma: Il linguaggio è un museo di sentimenti8 ma anche un mero codice, o no?
È chiaro che la lingua da sola non basta per eliminare le discriminazioni sulla base del genere o dell’orientamento affettivo, ma è altresì chiaro il fatto che in molte società le nuove istanze ricercano anche un’emersione linguistica: cioè, per esempio, la proposta dello schwa in Italia, la -e in spagnolo, il pronome hen in svedese. Non si tratta di modificare un sistema come sembrano temere De Benedetti e altri, ma di rivendicare un’esistenza, che inizialmente potrebbe essere rispecchiata dal sistema linguistico, per poi, magari, una volta azzerate le discriminazioni, essere superata: se non ci fossero discriminazioni di genere, che motivo ci sarebbe di contestare il maschile sovraesteso? Ma ciò, oggi, è impossibile, perché le persone continuano a essere discriminate per il loro genere. 

Di recente ho parlato dello schwa a lezione e mi è stato proposto questo esempio: penna è femminile, ma non lo è “davvero”; cioè, non si deve confondere genere grammaticale, lessicale e biologico.9 In più, come direbbe un’altra nota linguista come Cristiana de Sanctis, lo schwa non fa sistema non avendo alcun valore distintivo. Non è così?
C’è una strana dicotomia, da una parte persone che studiano lo schwa in base a ciò che indica a livello sociale, e persone, pur bravissime e competenti, che negano l’importanza a livello culturale di un fenomeno che è solo parzialmente linguistico; in questo caso la lingua è il segnale, non il fine. Di conseguenza, l’errore di base è pensare che lo schwa debba entrare a sistema; no, l’idea è essere fuori dal sistema e rivendicare l’importanza del margine. Chiamarla introduzione è sbagliato: lo schwa è pacificamente usato in una serie di contesti senza che nessuno ne imponga l’uso tout court (a parte eventuali schegge impazzite). L’uso dello schwa è liberatorio, connotato politicamente, non a norma, perché non è il suo scopo. 
L’esempio della penna mi sembra mind-blowing. Consideriamo l’esempio di Drusilla Foer, non della penna: ci rivolgiamo a lei istintivamente al femminile pur sapendo che è un uomo, e lo facciamo perché la sua manifestazione dell’identità di genere, in quel momento, è femminile. Sulla penna, lo stesso ragionamento non lo facciamo. È evidente che c’è una differenza tra l’assegnazione del genere a oggetti inanimati e concetti astratti e l’assegnazione del genere ad animali e persone, e che quest’ultima dipende dalla manifestazione dell’identità di genere (o, nel caso di animali, da quello che percepiamo essere il sesso dell’animale). Tuttavia, rispetto al genere degli oggetti, per esempio, degli articoli molto interessanti di Lera Boroditsky10 sembrano indicare che nelle lingue genderizzate come in quelle romanze il genere della parola, anche quando si riferisce a un concetto astratto, guida per esempio la scelta dell’aggettivazione: nella lingua in cui quella cosa, o quel concetto, è maschile, gli aggettivi abbinati dai parlanti tendono a essere più “maschili”, ma quella stessa cosa, se declinata al femminile in un’altra lingua, tende a ricevere un’aggettivazione più “femminile”. La posizione chomskyana è sempre stata ostile verso quella whorfiana, ma ciò non significa che i secondi abbiano ragione e i primi no o viceversa, tutti noi lavoriamo solo su ipotesi peraltro difficili da verificare. A essere onesta, in più, non credo che queste posizioni siano inconciliabili, ma che anzi questa complessità vada tenuta insieme. 

L’obiezione provocatoria di molti, linguisti e non, è: quindi ogni volta che una minoranza non si sente rappresentata, introduciamo l’uso di un nuovo fonema, morfema ecc.?
Il problema quale sarebbe? Caspita, noi siamo l’intersezione di tantissimi registri, usi linguistici, cioè anche lei, Davide, parlerà in un modo con la sua fidanzata e in un altro con i suoi genitori, lei è al centro di una galassia di insiemi, non ci sono due persone con lo stesso idioletto al mondo, giusto? È chiaro che nessuno di noi è in generale in relazione con ogni diversità in contemporanea, ma se lei ha un amico disabile, se lei ha un amico no-binary, ovviamente tenderà a fare più attenzione a quel segmento del linguaggio che le serve per relazionarsi con quella persona. Quindi il problema della parcellizzazione del linguaggio mi sembra provenga da una posizione di non necessità; quella che a noi sembra una stupida elucubrazione, per una determinata comunità marginalizzata magari non lo è. L’uso dello schwa va inteso come inciampo linguistico. 

Vorrei concludere, ringraziandola, con una considerazione che scambiai con De Benedetti. La linguistica storica ci insegna che la classe dei semianimati, da cui si sarebbe poi sviluppato il femminile, è successiva11 alla classe da cui proviene il maschile. Gli ho chiesto se ciò – che il femminile sia linguisticamente una “costola” del maschile – sia una prova che la lingua è uno strumento ontologicamente patriarcale; «È possibile sia così, entro certi limiti […]. Dopodiché, mi permetto di dire, che dobbiamo fare? Smontiamo tutto?» mi ha risposto. Ecco, lo chiedo a lei: tocca smontare tutto?
Io non cancellerei mai nulla, perché ritengo che si possa costruire aggiungendo. Al contempo, c’è la necessità di relativizzare punti di vista che per millenni sono stati dati per scontato. Caspita, finalmente, avere una persona con disabilità in famiglia non è più un’onta, abbiamo depatologizzato l’omosessualità che fino agli anni Settanta era una malattia psichiatrica, stiamo demedicalizzando le neurodiversità, insomma stiamo modificando la nostra visione dell’alterità. E per imparare come si possono dire le cose e non come si devono dire, come scriveva Tullio De Mauro, la base è lo studio, l’approfondimento, la comprensione profonda dei fenomeni, per isolarne anche gli eccessi. In questo senso, lo schwa è anzitutto un atto politico. Anche perché non si può mai sapere, magari lei domani Davide si innamora di una persona non binaria per esempio, e improvvisamente una questione che le sembrava una bega da linguisti diventa pungente, intima. È questo ciò che conta e che fa potenzialmente da discriminante. Non bisogna dimostrare che lo schwa non funziona, ma capire e vedere cosa fa, perché lo fa.


1 Moro (2015, p.1), The Boundaries of Babel. The Brain and the Enigma of Impossible Languages, MIT Press, Cambridge.

2 L’esempio è tratto da Hinzen W. (2006), Mind Design and Minimal Syntax, Oxford University Press. 

3 Due testi sulla teoria della relatività linguistica (in italiano) sono: Linguaggio, pensiero e realtà (Bollati Boringhieri, 2018), e Linguaggio e relatività (Castelvecchi, 2017). 

4 Cfr. Gheno V. (2019, p.95), Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole, Effequ, Firenze, 2019. 

5 Ivi, p. 71. 

6 Ne ho parlato con De Benedetti nella prima parte di Gira lo schwa

7 Cfr. De Benedetti (2022, p. 68), Così non schwa. Limiti ed eccessi del linguaggio inclusivo, Einaudi, Torino 2022. 

8 Gheno usa questa definizione in Chiamami così riferendosi al saggio Lingua e essere di Kübra Gümüsay (Fandango, 2021). 

9 Cfr. Luraghi S., Olita A. (2006, p.31), Linguaggio e genere, Carocci, Roma 2006. 

10 Per approfondire, un bel contributo che interseca il tema del relativismo linguistico e dell’inclusività è questo: https://www.iltascabile.com/scienze/lingua-pensiero-realta/ . 

11 Per approfondire, La nascita del genere femminile in Indoeuropeo in Luraghi S. Olita A. (2006, pp. 89-106), o Introduzione alla linguistica storica Luraghi (2006, Carocci, pp. 178-181) 



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Amador Loureiro tramite Unsplash

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