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Il giovane Mungo, storia di formazione disfunzionale



Possiamo ritenere che esistano due forme di attrito. La prima proviene dall’esterno e spinge verso l’interno: è quella che arriva inesorabile dalla famiglia in cui si è cresciuti, dalla società che ha dettato le sue regole, dall’ordine politico o religioso con il suo credo universale. La seconda proviene dall’interno, è spinta di sé contro di sé, è forma di autoresistenza o autosabotaggio a seconda di come si guardi alla cosa. La letteratura è piena di attriti di cui gli uomini sono artefici e vittime al contempo, siano essi appartenenti al primo o al secondo tipo. Da Raskol’nikov a Michele Ardengo, passando per Elena Greco e Frodo Beggins, personaggi di finzione provenienti da luoghi ed epoche disparate, eppure tenuti insieme dal giogo di una forza che li attanaglia e che ha sempre trovato, nelle centinaia di migliaia di pagine scritte nei secoli, un terreno fertilissimo, muovendo di fatto i fili di storie di crescita, di rivalsa o distruzione, di storie di emancipazioni e disfatte.

Di attrito parla anche Il giovane Mungo, secondo libro di Douglas Stuart uscito nel 2022 per Mondadori nell’ottima traduzione di Carlo Prosperi. La responsabilità di una pubblicazione arrivata dopo quella che si è aggiudicata il Booker Prize 2020 è altissima, e Stuart sceglie furbescamente di raccogliere le medesime tematiche del primo lavoro, Shuggie Bain (Storia di Shuggie Bain, Mondadori). Ritroviamo, in Mungo, ancora l’autobiografica Glasgow degli anni Ottanta, in un’epoca post-Thatcher deturpata e impoverita, e un giovane protagonista, Mungo, un quindicenne di famiglia protestante dal carattere docile, con un brutto tic nervoso che si sfoga contro la guancia, terzo e ultimo figlio di Maureen, meglio nota come Ma-Mo.

mungo

«La stessa Ma-Mo veniva chiamata Monday-Thursday Maureen, la Maureen-del-Lunedì-e-del-Giovedì. Era questo il nome di cui le altre alcolizzate chiedevano quando il ragazzo rispondeva al telefono nell’ingressino, per essere sicure di non aver fatto per errore il numero di “Maureen di Millerston” o di “Mo del Milk”. Erano piccole distinzioni ma importanti, se volevi rispettare la regola dell’anonimato.»

Ma-Mo è un’alcolizzata, avvezza a frequenti sparizioni che non lasciano indifferente Mungo costringendolo anzi a respingere l’ipotesi degli scenari più spaventosi, con la sua amata madre morta, violentata o sventrata. Ma, come si può intuire, Ma-Mo è poco interessata alle conseguenze (imminenti o future) della propria condotta, e considera anzi la prole un intralcio alla vera vita che a causa loro non si è mai veramente goduta. In questo scenario così lontano da un idillio, Mungo mantiene però intatta una certa mitezza d’animo, che lo differenzia dalla sua ambiziosa sorella Jodie, che «gli dava del baccalone», e da suo fratello Hamish detto “Ha-Ha” dalle truppe di delinquentelli adolescenti che lo seguono e non si tirano indietro se devono spaccare la testa di una guardia con un mattone o devono derubare e sfidare gli storici rivali cattolici.

L’ingresso in scena del giovane Mungo lo vede comparire mentre viene prelevato da casa, sotto gli occhi più o meno vigili di Ma-Mo, da due brutti ceffi con la promessa di un weekend di campeggio e pesca. Così mal assortita, la compagnia impostagli si rivelerà (per usare un eufemismo) di gran lunga al di sotto di ogni aspettativa: i capitoli dedicati a quei pochissimi e irreparabili giorni daranno prova delle peggiori brutture dell’uomo, capace di contaminare con la propria bassezza ciò che di più puro esiste al mondo, l’anima di un ragazzo. A quelle torbide ore impregnate di alcool, fango e di desolazione, si alterna una doppia narrazione, a esse precedente: è la vita di Mungo prima di arrivare in quel luogo dimenticato anche da Dio, è la storia dell’iniziazione alla guerriglia cittadina, ma anche dell’incontro con James.

James Jamieson è un ragazzo più grande di Mungo, abita nella strada dietro la sua, ha una colombaia che accudisce con estrema cura, ed è l’unica persona che non inneschi in lui una qualche reazione di sottomissione o di paura o di alta difesa. Il loro incerto e a tratti incauto avvicinamento non lasci però pensare a vicende di storica memoria: pur contrastati da chiunque li circondi, Mungo e James non sono moderni Giulietta e Romeo e Glasgow non è la Verona shakesperiana. Se qualcosa di romantico ha da lasciarci la loro storia, occorre guardare piuttosto alla fattezza del loro sguardo, immacolato e imbastardito allo stesso tempo. Violenza, abusi sessuali, negazione dell’identità li scalfiscono ma non li corrompono. Ne viene fuori un personaggio di incredibile spessore, cui forse Stuart ha dedicato fin troppe descrizioni senza che ce ne fosse bisogno.

Douglas Stuart
Douglas Stuart (photo credits BBC)

Non so se Stuart abbia dato in pasto ai lettori una storia indimenticabile; di certo ne ha consegnata una in cui la vita di 8persone come Mungo è suo malgrado ingombrante, in cui il mito della mascolinità tossica schiaccia e depreda, in cui l’amore filiale non ha niente a che vedere con il focolare domestico, in cui la fame impera e l’uomo dispera ma resta, ancora, un barlume di speranza.



In copertina, Glasgow (photo credits Yanez Magazine)

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