La difficoltà di mantenersi leggeri di fronte alla marea montante della pesantezza ideologica, psichica e storica è nel Novecento quasi un topos, un’evidenza che non ha bisogno di prove. È commovente tuttavia scoprire che nel cuore cupo della disperazione, tra i vortici della violenza e del nichilismo, resistono soffi quieti e freschi, scintille di una luce irradiante dalla terra al cielo, segni di qualcosa che dura nel fondo dell’essere: il miracolo della leggerezza, la trasfigurazione del peso nella grazia, dono di chissà chi, ghirigoro lucente dell’impossibile.
Due tra i frutti più delicati, icastici e radiosi dello spirito della leggerezza nella scena poetica italiana del Novecento sono le raccolte d’esordio di Attilio Bertolucci Sirio e Fuochi in novembre. Specialmente la seconda, apparsa nel 1934 (quest’anno, dunque, ne ricorre il novantesimo anniversario), è un libro lustro e screziato come un mosaico, un arabesco o una sequela di figure da lanterna magica, eppure mai sigillato in un puro gioco da esteti, in un intarsio preziosistico, in un’eleganza astratta.
La leggerezza è anzitutto, per il giovane poeta, un’irresistibile propensione alla rêverie, un gusto d’immagini colorate, sognanti e “musicali” che, se da un lato gli permette di muoversi (un po’ come Govoni) quasi danzando, libero dai risucchi opachi del reale, dall’altro lo spinge a porsi in ascolto del “rumore” della vita nel suo battito profondo, seminale e incessante. Rispetto alla severa e spesso tortuosa idea lirica – infarcita di simboli o analogie, vibrante di oscure allusioni orfiche – dell’ermetismo in via d’affermarsi negli stessi anni, la lingua di Fuochi in novembre brilla per la freschezza, per la grazia mai manieristica o leziosa, per il piacere terso e vagabondo delle immagini in transito come nuvole, uccelli, farfalle, onde, bagliori, tremori.
Eugenio Montale, in una celebre recensione apparsa su “Pan” in quello stesso ’34, colse subito la novità di quell’ariosa e fiammante raccolta, la sua distanza dai canoni del post-simbolismo allora imperante, pur leggendola in modo sornionamente riduttivo («Voce piccola la sua, di tenor comico, ma di bel suono»); più tardi Mario Luzi avrebbe scritto che la grazia di Bertolucci era ormai «un piccolo proverbio». Per cogliere il senso vero di quella libertà e leggerezza, rileggendo oggi Fuochi in novembre non possiamo più ridurne la portata a un esperimento originale ma limitato come una miniatura, un teatrino o un grazioso merletto. Nelle sue mobili e iridescenti partiture, nel contrappunto delle sue figure tese a mostrarci il mondo come una sorta di perpetuo ossimoro, nel suo fluttuare tra sogni e risvegli, tra una quieta ebbrezza e attimi increspati e cangianti come le piume del «multicolore uccello del vento», nel suo ondeggiare tra dolcezze domestiche, striature d’ansia e vertigini amorose, nel suo pulsare tra un tempo frusciante come i grani di sabbia in una clessidra e quelle pause di silenzio in cui il tempo pare sospendersi, nel suo veleggiare fra estasi e struggimenti, tra chiarezza e mistero, Fuochi in novembre ci mostra come un grande poeta moderno, rifiutando la via mentale dei simboli e il grigiore del realismo, possa scavarsi una nicchia di felicità e bellezza all’interno della vita e delle sue prove infinite.
La grazia nei versi del giovane Bertolucci non è solo la piega liberty o surreale di un gusto nutrito d’amore per la pittura (non è un caso che il poeta sia nato e cresciuto a Parma, la città dei due maestri supremi della grazia rinascimentale, il Correggio e il Parmigianino): è una pulsione di carattere sacrale: è la capacità di cogliere la perennità della vita, la sua natura miracolosa, la sua forza di rigenerarsi attraverso e oltre le impasse, le ferite, le notti d’insonnia o i sussulti del cuore (Convalescente: «Ancora vita il tuo dolce rumore / dopo giorni bui e muti riprende…»); è la limpidezza di uno spirito in grado di riconoscere le occasioni, le soglie, i passaggi in cui la sofferenza si trasfigura in dolcezza, in cui l’ombra si decanta in luce. Nella poesia più intimamente “cristiana” della raccolta, Ginestre, il fiore per eccellenza leopardiano – emblema altamente creaturale della solitudine, della povertà in cui vivono i giovani abitanti delle terre dell’Appennino – deve proprio alla sua modestia un alone diverso di bellezza. La sua umiliazione è un dono, è quella grazia che Cristo ha rivelato come lo splendore dei piccoli: «Gioventù sacrificata / delle ginestre, / grama e splendente / per le pendici d’Appennino. / Vento e luce / ti nutrono. / Solitudine t’adorna».
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Benché Fuochi in novembre sia un libro composito, increspato da impasti di colore e di forma multipli e variegati, ciò che gli assicura una misteriosa unità è una specie di “tocco” amoroso di fondo, qualcosa come un calore effusivo o come una carezza circolante senza sosta tra le pieghe, i soffi, i battiti delle immagini. Da un certo punto di vista la raccolta, concepita in controluce al fidanzamento del poeta con quella che sarà la donna della sua vita, potrebbe considerarsi un canzoniere d’amore – un canzoniere del tutto libero da quelle ipoteche del petrarchismo che, negli stessi anni, gravavano ancora su non pochi versi dei poeti ermetici. Fin dal testo d’esordio (La rosa bianca) il “tu” di una nuova presenza imprime il suo sigillo alla scrittura orientandola a un rapporto primario col ritmo tremante del tempo. La lingua, raccogliendosi in ascolto, nutrendosi come un’avida ape di nuove linfe, di nuove emozioni, s’imbeve di un fresco calore.
La rêverie si apre subito alla vita, si fa forma specchiante, “ritratto”. Una parola innamorata non tanto di sé (come troppe altre nel concerto del Novecento) quanto del mistero semplice di un volto si schiude all’abbraccio dei giorni, delle stagioni, degli anni, degli attimi:
Coglierò per te
l’ultima rosa del giardino,
la rosa bianca che fiorisce
nelle prime nebbie.
Le avide api l’hanno visitata
sino a ieri,
ma è ancora così dolce
che fa tremare.
È un ritratto di te a trent’anni,
un po’ smemorata, come tu sarai allora.
Questa fiamma amorosa accesa in limine percorrerà l’intero libro non solo come un filo tematico ma come una forza chiara e segreta, come un “vibrato” d’anima, come un intarsio di pulsazioni e di grazia, come una riserva preziosa d’atmosfere o un nido di sempre nuove scintille.
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Nella voce di Fuochi in novembre cogliamo spesso una sorta di “femminilizzazione” dei timbri, una propensione a fluire in registri delicati e plastici, tersi e riposanti. Se da un lato le immagini si muovono, dall’altro tendono ad adagiarsi in momenti dorati di riposo o di estasi. Nella rêverie si fa strada il desiderio del poeta flâneur di sostare e cullarsi tra fiori cari e splendenti come ragazze (la rosa bianca dell’incipit, la rosa rossa di L’Enza a Montechiarugolo) e ragazze tenere e “altere” come fiori (Madrigale, Primavera, Questo sole), tra mani colme di foglie di gaggìa (Ifigenia, Poi nella serena luce) e altre “fiorite” dei rossori del fuoco (Alle mani di Wanda)… Una forza luminosa, inedita nella lirica italiana, libera nomi femminili incantati: Ninetta, Wanda, Enza, Emilia…
Tale femminilizzazione della lingua non va colta, però, a senso unico. Osserva Gaston Bachelard: «Così come nella pittura il verde fa “cantare” il rosso, nella poesia una parola femminile dà grazia al maschile». Poche raccolte come Fuochi in novembre covano in sé, con tanto ardore leggero, la verità amorosa di questa intuizione: di continuo un trepido viluppo affettivo lega parole o figure in coppia (dei «giovani saltimbanchi» e una «sognante luna», una «prigioniera orientale» e un «cielo azzurro», una «cicogna nera» e un «piccolo anello»…) stringendole in un abbraccio vibrante.
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Nella poesia che intitola la raccolta, dei ragazzi in una campagna autunnale «corrono intorno / al fuoco / con le mani nelle mani, / smemorati, / come se avessero bevuto / del vino». Forse questa specie di rito un po’ febbrile è, tra molte altre cose, una figura di quella speciale energia cinetica che nasce, come un fuoco, da ogni vero libro di poesia e che spinge i lettori a percorrerlo e ripercorrerlo negli anni, a “danzare” attorno al suo cuore imprendibile?
Io non so quante volte ho riletto Fuochi in novembre: non lo so perché rileggerlo vuol dire ogni volta “smemorarmi”, ritrovarmi più leggero, riscoprire come qualcuno abbia creduto possibile la gioia nel cuore di tenebra di un mondo arso dal male.