Sono i primi anni Duemila e in Italia inizia ad andare in onda una nuova sitcom: si chiama Will & Grace e racconta la storia di un’amicizia eccentrica tra un’arredatrice e un avvocato omosessuale, divertente con qualche punta di dramma di tanto in tanto. Negli anni diventerà un cult del genere e il rapporto tra i due protagonisti si fisserà nell’immaginario collettivo: la ragazza goffa e l’amico gay.
Più di vent’anni dopo, persino i protagonisti di un romanzo si domanderanno se non sono forse le macchiette degli originali. Il romanzo in questione è La variabile Rachel (The Rachel Incident) di Caroline O’Donoghue, pubblicato nella traduzione di Chiara Manfrinato per NN editore all’interno della collana Le fuggitive.
Rachel è una giornalista, vive a Londra e sta scrivendo un articolo per l’Hibernian Post. Durante una serata scopre, tra una chiacchiera e l’altra, da un conoscente che un suo vecchio professore dell’università è in coma. È il professor Fred Byrne, che all’epoca insegnava letteratura e che, nella sua memoria, è impossibile identificare come semplice docente del college. Più che averle fatto da mentore o averla instradata nel mondo del lavoro, Byrne è stato a suo modo decisivo per l’intero corso della sua vita (non solo la sua).
È il 2010. Rachel ha vent’anni, frequenta l’Università di Cork. I suoi genitori, più di altre famiglie, hanno subito gli strascichi della crisi economica dell’Irlanda iniziata nel 2008: per questo è costretta a lavorare in una libreria per pagarsi gli studi. È durante un turno di lavoro che conosce il nuovo commesso, James Devlin, un ragazzo brillante e originale che la colpisce al punto da spingerla a voler diventare a tutti i costi sua amica. Detto, fatto: i due, come nei migliori colpi di fulmine, si trasferiranno molto presto a vivere in Shandon Street, un appartamento fatiscente dove si respira umidità e si affollano una serie di momenti superflui e altrettanto indimenticabili, come spesso accade quando si ha ancora tutta la vita davanti. Per Rachel, però, sono anni non leggeri, tenuta a convivere con un’educazione borghese e ricordi di un’infanzia agiata che cozzano con le necessità imposte dalla recessione. Rachel è in quella fase della vita in cui ogni opzione è teoricamente a portata di mano ma nulla è semplice, e con la laurea dietro l’angolo ogni scelta può rivelarsi decisiva.
È qui che entra in gioco il professor Byrne: Rachel ne subisce il fascino e, invece di sedare quell’attrazione decide chiaramente di assecondarla. Si offre di organizzare in libreria un finto lancio dell’ultimo libro scritto dal professore – un’occasione come un’altra di “creare l’atmosfera”, tentare l’approccio e dimenticarsi di dettagli trascurabili come il fatto che l’uomo sia sposato. Nel disegno generale del suo piano diabolico, ha però trascurato un’incognita: non cosa sarebbe successo se Byrne l’avesse assecondata, ma cosa sarebbe capitato se nel triangolo dei coniugi Byrne a fare da terzo fosse stato qualcuno di imprevedibile, ovvero James, il suo amico James. Da questo momento in poi, le cose seguiranno il loro (imprevedibile) corso e nessuno dei quattro – inclusa l’ignara moglie Deenie – avrà più davvero il controllo sugli eventi.
Se da un lato sembra in effetti di trovarsi in un episodio di Will & Grace – più sofisticato, certo, ma pur sempre soggetto a determinate dinamiche relazionali – dall’altro O’Donoghue è abile a servirsi della storia individuale per tratteggiare un contesto sociale ben più ampio e sfaccettato, conducendo il romanzo a un livello più elaborato. Il teatro in cui si muovono i personaggi non è edificante, i diritti fondamentali sono compromessi. Non soltanto da un punto di vista economico, con una ragazza che deve accettare l’inadempienza dei genitori, la perdita del lavoro e la consapevolezza del “fallimento dell’arte” se il settore diventa inadeguato a dare sostentamento ai suoi professionisti. La variabile Rachel inquadra un preciso momento della storia irlandese: attraverso le vicende di Rachel si entra nel vivo della questione dell’interruzione di gravidanza – che fu concessa nell’ottobre del 2019 in Irlanda del Nord dopo 158 anni di diritti negati. Persone come Rachel, infatti, fino ad allora, erano costrette a prenotare voli per l’Inghilterra per sottoporsi a un aborto senza che questo fosse considerato un reato perseguibile dalla legge. Da un lato i riferimenti culturali di quegli anni, pieni di contraddizioni su cosa significasse essere donna, dall’altro il bigottismo della società e l’impossibilità di una piena affermazione della propria femminilità, se le conseguenze di un imprevisto avrebbero potuto mettere a repentaglio tutto.
Nonostante lo sfondo tutto fuorché idilliaco, però, Rachel ha e avrà sempre James, questa amicizia che si consuma tra piumoni e vino scadente, sesso occasionale e una lunga lista di errori di cui pentirsi negli anni a venire, che si dilaterà sorvolando l’oceano, ma resterà salda e indistruttibile. Il romanzo è allora l’incredibile racconto di un rapporto che, pur cavalcando il cliché, non cede agli inconvenienti e resta leale a se stesso.
«Mi fa strano riportare la nostra prima conversazione perché non trasmette affatto la vera essenza di James. Quell’incipit mi ha incantata: “Qualcuno qui ha la scabbia”. Lo ha detto come Poirot che indaga in una casa di campagna funestata da un delitto. Come se avesse adocchiato i pregiudizi intrinsechi della nostra bella società e fosse pronto a svelarli al mondo. La seconda parte della frase era di tutt’altro tenore: “e ha lasciato la pomata in bagno”. Veniva dalla contea di Cork, da Fermoy per la precisione, che per me era aperta campagna.»
In copertina, scena tratta da Will & Grace di The Hollywood Reporter